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PERONI, PRECARIATO E PAULO DYBALA
Emanuele Di Carlo
Guidava il suo motorino distrattamente. Non si curava di gialli e rossi. Mai si era curato dei verdi. Il motorino andava perché lo decideva lui, lui non il proprietario ma lui il mezzo, pronipote di quelle macchine, di quella velocità post-moderna che il pensiero futurista idolatrava già all’inizio del Secolo strano. Pipponi su pipponi sulla velocità, sul progresso delle macchine e alla fine a cosa si è arrivati? Agli SH 125. Una merda? Direi proprio di no. Un simbolo del progresso? Ma in che modo? Sarà pure che il progresso non ha simboli ma solo prodotti, da smerciare al miglior offerente o al peggior consumatore.
Correva il suo SH tra i selvaggi anfratti dell’Ostiense. L’erba alta cresceva agli angoli della strada, giungla suburbana che nell’estate si fa savana. Correva il motorino in quella piazza di leoni in cui si sfidano Piramide e Porta San Paolo. Rotonda dantesca che fa finta d’essere piazza, in cui tram, macchine, camion, furgoni, macchine d’epoca, ape car, bighe, autobus, taxi, astronavi, cortei, carri bestiame, cammelli e SH si sfidano in quella 24h Le Mans che è l’infernale passaggio obbligato in una città che ha scelto il traffico come metodo di percezione del reale e della vita.
“Bella vita de merda…” pensò il nostro eroe in calzamaglia, in sella al suo ronzinante.
Parcheggiava il suo SH in un punto non troppo studiato. Le giornate storte dovevano finire sempre in qualche modo a Garbatella, quartiere popolare che non ha retto alla gentrificazione, ma al tempo stesso ha detto pure “e sti cazzi, io mi fijo lo voglio fa cresce dove ce so l’alberi e le persone e dove c’hanno girato i Cesaroni”. Garbatella consola gli animi degli SH scalfiti e delle persone abbandonate a loro stesse. Sarà l’anima meretrice. Saranno le boiate che raccontano su di lei. Ma lei sta là. Fascismo e comunismo. Centro e periferia. Gentrificata e popolare. Radical chic e borgatara. Studentesca e proletaria. Sirena della polizia che si fa sirena dell’ambulanza quando la miccia è appena accesa, a seguire un sospiro di sollievo: questa è la Garbatella.
Dopo aver messo la catena, l’SH si riposa come un cavallo in un western, abbeverandosi a qualche nasone. Il nostro Lee Van Cleef, sceso dalla sella, non ha niente degli eroi, perché tanto sono buoni solo per le parate e le ribollite. I nostri eroi, ve lo dico, non sono eroi. Il ragazzo tiene in mano una busta, due Peroni da 66cl sono le sue pistole. Il nemico è troppo lontano, il potere è lì e facciamo come se non esistesse, perché se lo desideri allora forse lo vuoi. C’è da restare appassiti invece che tesi. Spighe di grano secche e pronte, ma lasciate a morire nei campi d’agosto. Si sentono le urla di un bambino che gioca e un cane che abbaia da un balcone, poi nient’altro.
Il ragazzo se ne stappa una: grazie al cielo è ancora fresca. Si siede su una panca in marmo a piazza Brin, si leva gli occhiali da sole e si guarda intorno. Una fontana nel mezzo, delle scale che scendono da un lato e dall’altro un arco che ti fa entrare nel ventricolo destro della Garbatella. Due parchi con l’erba alta, uno alla destra e uno alla sinistra. La realtà è così geometrica anche quando non sei ingegnere, anche quando non hai piani per il resto della tua vita. Il gargarozzo del nostro eroe si riempie di birra, la voglia di un rutto e una sigaretta, una sola sigaretta, è la sostanza del pensare e del sentire contemporaneo.
“Rinunciare non sarebbe male” pensa il ragazzo, mentre il vetro gli suda nella mano.

Perdere il lavoro senza averlo mai avuto. Colloqui che sembrano partite a burraco con le vecchie del circolo anziani. “E morite che cazzo…e lasciateci giocare anche a noi…” pensa il ragazzo mentre la tracanna questa birra, se la scola tutta. Lui che ha studiato ma non la materia giusta. Lui che aveva i contatti ma non quelli giusti. Lui che ha speso il suo tempo ma non nel modo giusto. Lui che gli avevano detto guarda che hai il mondo in mano, ma nessuno gli aveva mai detto che quel mondo scottava come una teglia di pomodori col riso. Nessuno gli aveva detto che quel mondo era fracico come una prugna sotto al sole.
Ah, le occasioni perse! Ma poi, alla fine, di quali occasioni parliamo? Dei set che ti schiavizzano per quattro euro l’ora per essere pedina in una scacchiera di re e regine? Dei ristoranti, delle trattorie, delle pizzerie in cui vecchi e obesi imprenditori provano a succhiare ossi buchi e linfa vitale dall’orecchio di giovanǝ precariǝ? Degli uffici in cui l’uomo macchina programma altri uomini macchina per soddisfare l’interesse di donne e uomini già cablati e motorizzati? Possiamo parlare anche del pubblico impiego ma riesco soltanto a visualizzare un’immagine folgorante: un tizio aggrappato con tutte e due le mani ai fili del tram, per non cascare alla fine è morto folgorato.
“Non fa tutto schifo…” pensa il nostro eroe mentre la scolatura perde le sue bollicine e si riscalda come piscio, “…se almeno ci fosse un tutto, beh allora sì, allora si potrebbe dire che fa tutto schifo e che ho tutto da perdere…”
Ma di cosa ti lamenti sarebbe da dirgli. Ma cosa vuoi di più gli hanno detto tutti i datori di lavoro ai colloqui. Ma cosa pretendi di più gli hanno detto tutti i capoccia quando quel contratto a nero non ti tutela, quando inizi a pensare che le tasse superano la ricerca di un ambiguo benessere, quando ti prendi quattro euro l’ora e fai pippa, stai muto in silenzio, perché c’è chi si taglierebbe la gola per quattro euro l’ora. Ma non è giusto. Ti dicono che per lavorare devi faticare, ma si fatica allo stesso modo da circa 150 anni e la politica intanto danza, danza. Il nostro eroe guarda il tramonto in una delle piazze più belle e sconosciute di Roma. Il gasometro, simbolo della merda fattasi progresso e poi monumento, cattura il sole per cercare di bloccare quell’ora, di non far scendere la notte sul nostro protagonista. Perché la notte non porta più consiglio ma soltanto brutti sogni e insonnia da curare con droghe leggere e gocce di melatonina.
“Che città del cazzo” dice la seconda bottiglia stappata dal ragazzo con un vecchio clipper nero. Era di qualcuno? Chissà. In caso ne comprerà un’altra dopo e si brinderà gioiosamente alla disoccupazione e alle nevi non più perenni. “Però domani continuo la mia ricerca…” si ripete il nostro eroe come se fosse una preghiera. Nella città sacra tutto si fa preghiera ma il problema delle preghiere è che non sono domande, che non hanno risposte ma restano a metà tra la galassia e le nuvole, lì dove gli aerei di Porco Rosso transitano perché condannati al girovagare eterno, in caduta libera da trent’anni come i sei aerei precipitati dopo il primo incidente.
“Questo sì che è piangersi addosso…” pensa il ragazzo mentre le lacrime di Peroni scendono sugli zigomi bianchi.
“Sì, ma avete cominciato prima voi…” si risponde da solo come se fosse posseduto, come il lupo e l’agnello che si alleano per freddare il pastore.
Il crepuscolo scende nelle strade di Roma sud. Canguri, elefanti e cinghiali escono fuori alla ricerca di cibo e di un posto fisso. “Che poi non ho niente contro il contratto a tempo determinato…” pensa il giovane riflettendo sui lavori e le grandi opere della sua vita, “…mi piace andare di fiore in fiore come i bombi a primavera…tanto il lavoro fa tutto schifo o, meglio, una vita spesa per il lavoro fa tutta schifo, dall’inizio alla fine, è un serpente che si morde la coda per giocare come se fosse un labrador e allora si pizzica e si avvelena da solo, come un coglione, morendo nei pressi di Villa Mercede.”
La seconda Peroni scende per la gola, strabordando nella trachea come torrenti in Emilia-Romagna. I colpi di tosse si susseguono nel nostro ragazzo che rischia di morire per qualche goccia di birra. Ma lui non muore. Resiste. E resiste. E resiste.

“Vivere su sto pianeta è già un gesto rivoluzionario…” pensa il ragazzo ritornando a respirare a pieni polmoni, “…il problema è morirci su sto pianeta, allora sai che fate? Quando sto per crepare mettetemi su un razzo e sparatemi alla velocità della luce tra le stelle, tra Urano e Saturno, lì dove il neocapitale non c’ha ancora trovato niente…magari mi trovano gli alieni, i marziani…magari mi fanno pure il contratto a tempo indeterminato.”
La notte scende sul volto del nostro eroe. Anche il motorino ormai dorme nell’attesa che qualcuno lo rubi o che un cane pisci sulla ruota posteriore. Le Peroni sono finite e il ragazzo resta con la busta azzurra in mano. Si gratta la barba nevrotico: non assunto. Che posto era non lo sa neanche lui ma il prossimo colloquio sarebbe andato bene. Alla fine, a Piazza Brin, non è arrivato più nessuno. Ma forse qualcunǝ sarebbe arrivatǝ. Forse qualcunǝ con una canna d’erba. Forse qualcunǝ in ciabatte. Forse Qualcuna, lui sa chi. Il nostro eroe però ha deciso di restare lì come Diogene nella botte e chiedere alla gente di spostarsi per essere accecato dalla luce del sole o della luna, prima che si spengano, prima che ricominci tutto da capo.
“Il posto fisso lasciamolo ai film comici…” pensa il nostro eroe mentre vede una figura stagliarsi sullo sfondo, una figura trasparente ma dai contorni ben definiti. Un passante o un amico, un altro eroe per caso? In ogni caso la sua solitudine in questo mercoledì si interromperà a breve mostrando ampie zone buie illuminate dal neon del passato. Intorno falena e moscerini.
“Solo me ne vò per la città…” canticchia il nostro eroe che audacemente ha scelto di sfidare i grandi protagonisti della nostra italica narrativa. Ma tutto ha inizio a Garbatella, sempre, in ogni caso. Tutto ha inizio nella moltitudine di pensieri che la zia Garba può innescarti, allora restiamo a goderceli per qualche altro secondo questi pensieri, restiamo ad osservare il nostro ragazzo, perché presto gli occhi di chi ha già visto tutto non saranno più in grado di vedere.
“Dybala è uscito a metà partita ma conveniva di gran lunga lasciarlo dentro anche se camminava in campo, anche se ormai si sedeva accanto al portiere avversario e lo guardava e ci chiacchierava dicendogli che va così la vita, che i campioni esistono solo nelle teste di chi ha paura di sé stesso, che il merito in realtà è la distorsione positivista della provvidenza e che non c’è modo di guarire i mali del mondo se i preparatori atletici fanno schifo al cazzo e ti fottono una stagione. Dybala doveva tirarlo il rigore contro il Sevilla doveva far vedere al cazzo di mondo che, anche se hai una gamba sola perché l’altra ormai è maciullata, comunque, vi siete sbagliati tutti, sono ancora un grande, sono ancora in grado di decidere le partite, sono ancora un ventenne anche se ho quasi trent’anni. Invece il rigore non l’ha calciato perché è uscito prima. Perché camminava sulle ginocchia senza fiato, camminava sulle ginocchia come un cristo dopo esser stato crocifisso. Allora Dybala piange, piange sotto a una curva di uomini urlanti, piange come un bimbo, piange come piangerei io, come piangono i miei amici, come piange la gente in un’epoca in cui il lavoro e lo sfruttamento sono diventati igiene del mondo. Piange per un amore già finito. Dybala piange per dieci minuti abbondanti, poi smette e respira. La sera sotto al cuscino ripenserà al rigore che non ha potuto calciare. Ma non dite per favore che è stata colpa sua…”
Farnetica Errico, continua a farneticare, riempiendoci delle sue riflessioni, del suo filosofare. Intanto una canna d’erbone sta poggiata sulla panca, accesa. E noi che la guardiamo.

Nato sull’isola Tiberina nell’estate del duemila, romano di seconda generazione (credo), scrivo, studio e faccio cortometraggi con un’allegra combriccola di persone. Mi sono laureato un annetto fa in arti e scienze dello spettacolo, ora voglio dare fuoco al DAMS, lavorare nel cinema e prendermi una magistrale in storia contemporanea. Ho fatto tennis per un anno e ora vorrei ricominciare.
Mail: emadicarlo00@gmail.com
Instagram: @emanuele__dicarlo


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