Tempo di lettura: circa 11 minuti

NANOLA
Giulio Iovine

…also the Society Islanders’ conception of thinking as ‘speaking in the stomach’ and that of the natives of New Guinea: ‘The mind, nanola, by which term intelligence, power of discrimination, capacity for learning magical formulae and all forms of non-manual skill are described as well as moral qualities, resides somewhere in the larynx …’.

Onians, The Origin of European Thought (1951), p. 14


Devo fare un certo sforzo con la memoria per ricordarmi del povero signor L. prima che arrivasse nanola. Il signor L. non era quel genere di persona che s’impone all’attenzione. Viveva nel nostro condominio, al terzo piano come noi – ma in comune avevamo soltanto il pianerottolo. Lavorava all’ufficio postale e, scapolo, aveva vissuto per anni con una sorella maggiore, a sua volta nubile, che gli teneva la casa e che morì quando ero piccola. Un giorno che io avevo sedici anni il signor L. fu scoperto a tossire sangue nell’androne e portato al pronto soccorso. Non ne sapemmo più niente fino a un anno dopo, quando ricomparve nel suo appartamento. Mia madre, che lo spiò dalla tromba delle scale mentre prendeva la posta nella sua buchetta, si accorse immediatamente che, a differenza di prima, non apriva più la bocca quando respirava.

Fotografia scattata dall’autore

Fu poi lo stesso signor L. a bussare alla nostra porta per portarci alcuni dei più bei ricami della signorina L., che aveva deciso di regalare a mia madre, e spiegarci per bene la situazione. Questo nuovo signor L. era uno a cui, al contrario di quello prima, era impossibile non far caso. Ancora non lo sapevo, ma stavo per condividere con lui diversi momenti che avrebbero, bene o male, cambiato la mia vita; in un certo senso, è la gratitudine che ora mi spinge a raccontare. Beninteso, all’inizio non ero per niente convinta di questo nuovo signor L. Quel giorno che venne a trovarci, mi accorsi con disgusto che spalancava la bocca larga come un forno senza muovere né labbra né denti né lingua; e da quella bocca usciva una voce umana che parlava italiano. Sul fondo della sua gola luccicava qualcosa di gonfio e giallo canarino.

– Un cancro alla laringe – disse il signor L. a mia madre e mia zia. – I medici hanno dovuto asportarla. Questo mi ha reso completamente muto. Sono andato via per morire in pace, e invece ho trovato nanola.

E qui il signor L. aprì ancora di più la bocca, indicando la cosa gialla e gonfia che gli occupava la gola.

– Lei è nanola, – disse. – La chiamano così nella Nuova Irlanda, dove l’ho trovata. È un isopode marino, Cymothoa loquiloqua, che si inserisce all’interno dell’apparato boccale di un ospite – di solito un pesce -, ne viene nutrito, e in cambio gli fa da voce.

– Ma i pesci non hanno un apparato laringale – obiettò mia zia.

– Io sapevo che in questi casi di solito ti fanno una protesi – intervenne mia madre.

– Sì, e vengono fuori quelle orribili voci metalliche – rispose il signor L. – Come parlare con un rasoio elettrico.

In effetti, a parte che non muoveva la bocca per parlare, il signor L. sembrava esprimersi col suo tono di voce consueto; solo, un po’ più acuto.

– Signor L., dov’è la sua lingua? – chiese infine mia zia, sporgendosi sulla sua bocca spalancata. – Da qui non la riesco a vedere.

Nanola l’ha mangiata – rispose lui. – Poco male: non serviva a granché. Ora mi nutro solo di liquidi.

– Questo isopode non mi pare un animale qualunque – commentò allora mia mamma, a braccia conserte. – Siamo sicuri che non ci metterà qualcosa di suo in quello che dice?

– Certo che lo siamo. Nanola è la voce, ma il pensiero è mio.

Io di questa cosa non ero proprio convintissima.

Fotografia scattata dall’autore

E in effetti, giorno dopo giorno, pareva – a me, ma non solo a me – che il signor L. fosse un po’ diverso da prima della laringectomia. Ora che parlava tramite nanola – che alterò il suo timbro, rendendolo simile ad un gracchio ora liquido, ora rauco – lo sentivi esprimere opinioni un po’ su tutto, anche su cose di cui onestamente avremmo fatto a meno.

– Ehi tu – gridò un giorno al postino che consegnava le lettere nella buchetta. – Piscione.

– Prego? – rispose lui.

– Non fare l’offeso. Ieri pisciavi nel cortile. Ti ho sentito dal terzo piano.

– Ma io queste cose non le faccio – protestò lui.

– Piscione e pure bugiardo – concluse il signor L. – Vatti a fare visitare. Pisci sangue. Non lo vedevi perché era buio.

Quel postino non lo vedemmo mai più. Mia zia, che faceva l’infermiera, venne un giorno a dirci che era ricoverato con non so quante cisti al rene.

– Non capisco – disse mia madre. – Non ha detto visto. Ha detto sentito. Che senso ha?

Una sera sentimmo bussare furiosamente al quarto piano. Il signor L. stava urlando al suo padrone di casa, il vecchio Giustino, di uscir fuori. Giustino uscì – anche noi, attratti dal fracasso – e il signor L. gli brandì davanti alla faccia una piastra a induzione.

– È stata tua l’idea?

(Durante l’assenza del signor L., Giustino aveva ristrutturato.)

– Sì, perché?

– Perché te la do in testa, coglione – gridò il signor L. – È la cosa più impratica che abbia mai visto. Funziona solo se la pentola o la padella è della circonferenza giusta. Sennò non si accende. Due ore a tentare di far bollire l’acqua. 

Gli ruppe la piastra in due davanti agli occhi, fracassandola contro lo stipite della porta; e gli lanciò i pezzi dentro casa. Poi gli sbatté la porta in faccia e se ne tornò in casa. Giustino, terrorizzato, gli ripristinò i vecchi fornelli a fiamma a spese proprie. 

Il giorno dopo, incontrando sul pianerottolo Lalla che scendeva mano nella mano con il suo nuovo moroso, Fernando, sgranò gli occhi e disse:

– Voialtri ragazzini dovete usare le protezioni. Questo fracico ti ha attaccato la sifilide.

Lalla protestò e il moroso minacciò di chiamare la polizia. Disse che L. doveva tenersi per sé le sue stronzate. L. allora, con un’energia che non gli sospettavamo, balzò su Fernando e gli tirò giù i pantaloni; gli afferrò il testicolo destro, facendolo urlare di dolore, e disse a Lalla:

– Stronzate, eh? E questo cos’è? Perché a me sembra un sarcocele, deficiente. Manco l’arnese gli hai guardato.

Per caso in quel momento risalivo al mio pianerottolo; incrociai prima Lalla e il suo uomo che scappavano, poi L., che mi guardò e disse:

– Sono andato a colpo sicuro. In bocca a questo invertito posso vedere tutti i pensieri del condominio. Me li lecco come caramelle. Però che disagio, Cosa.

– Morena – dissi.

– Morena. Che disagio, Morena.

E poi ci fu quella volta che il signor L. cambiò la mia vita. Se vado in ordine cronologico, purtroppo è il mio turno. Fu nel cortile del nostro condominio – ero china sul prato in cerca di quadrifogli. Lui mi passò accanto e disse, senza salutare:

Fotografia scattata dall’autore

– Quando la porti a casa, la Manuela?

Lo guardai.

Chi?

– La Manuela. La tua morosa.

– Io non ho una morosa, signor L.

Si morse le nocche delle mani, come facevano i miei compagni alle medie, in piena prepubescenza. Poi disse:

– Tu mi prendi per cretino, sciacquetta. Quella ti accompagna a casa tutti i giorni. Vi concedete un limone appena dentro il portone, scusa la rima. Viene a trovarti la sera e vi sento chiuse nell’armadio. A casa mia questa è una partner, non un’amica.

Mi scottava tutto, la fronte, le guance, le radici dei capelli.

– Signor L., la smetta.

– Cosa credi, che perché sei cresciuta con due donne, non puoi portarne in casa una terza? O che siccome tuo padre ha fatto fagotto quando eri neonata, devi ripagare tua madre e tua zia con un genero? Non c’è mica la percentuale obbligatoria di nerchia in una famiglia. Ammetti l’esistenza della Manuela e non seccarmi più.

Mi alzai stizzita:

– Signor L., ma seccarla di che? Non sono affari suoi.

Lui mi guardò con il muso contratto:

– E invece lo sono, perché apparentemente sono l’unico che ragiona in questo condominio. Ti rendi conti delle figuracce che vi vedo fare ogni singolo giorno? Correggervi poi non serve a niente, tanto appena me ne vado, la cazzata la rifate uguale. Vuoi veramente finire anche tu nell’elenco di stronzi che aggiorno da quando vivo dentro il muto?

Tornai a casa in lacrime, come se mi avessero scippato qualcosa. Mi buttai sul letto con l’ansia che mia mamma e mia zia avessero sentito qualcosa. Mai, mai avrebbero dovuto sapere. Poi quella sera a cena feci coming out, mamma e zia la presero con estrema noncuranza, e io da allora sono fuori dall’armadio e ho una dignità, e mi perseguita questa consapevolezza grata, che sia stato il signor L. o chi per lui a tirarmi fuori dalla parte peggiore della mia adolescenza – a calci in culo, va bene, ma l’effetto non è stato poi così male.

Non è finita qui. Da quel giorno il signor L., per ragioni che non riuscivo a capire, cominciò a guardarmi sempre più storto. Un giorno di maggio, mentre entravo dal portone del condominio, mi sentii strattonare da un lato; era lui che mi teneva ferma con le braccia e schiacciava il mio volto contro la sua bocca aperta. Sul fondo stava nanola.

Nanola, come tutti gli isopodi, aveva un esoscheletro chitinoso, occhietti triangolari, due antenne e una decina di zampe uncinate da ambo i lati del corpo; mentre parlava per il signor L. sudava, si gonfiava e mandava trilli acutissimi che facevano impazzire i cani di tutto il vicinato. Con gli occhi e il naso praticamente appoggiati a quella circonferenza boccale, sentii le antenne dell’isopode sfiorarmi le narici.

Fotografia scattata dall’autore

– Sai di che cosa è fatto l’universo? 

– Signor L., mi lasci.

– Te lo dico perché l’ho visto nascere, quindi lo so. Di niente. Sembra pieno, ma è come un profilattico usato – la sbobba è l’idrogeno, il resto è aria calda.

– Signor L., basta – gridai, e assestandogli un calcio negli stinchi, mi liberai e corsi verso casa mia, mentre lui urlava ma dove vai, ma dove vai.

Naturalmente ne parlai con mamma e zia, che ne parlarono con gli altri condomini; e il signor L. fu messo agli arresti domiciliari in attesa di una perizia psichiatrica. E così fu a casa sua che lo vidi per l’ultima volta. Uscii una sera di giugno, e sul pianerottolo c’era lui, curvo, pallido e disfatto, bloccato sulla soglia della sua porticina. Si accorse della mia presenza:

– Dorme. È il momento. Toglimelo – rantolò aprendo la bocca. Continuava a parlare senza muovere le labbra, ma aveva la voce più bassa del solito.

– No, che stupido – disse poi. – Sarebbe capace di mozzarti la mano. 

Fece il gesto di allontanarmi.

– Non so perché si comporti così. Credevo sarebbe stato bene, che ci saremmo intesi. L’ho trovato nel putridume di una spiaggia, ce n’erano altre centinaia, come in un termitaio. Pensavo.

Gli tornò la voce acuta:

– Pensavi male, come al solito. Ma non è colpa tua se sei idiota. È la razza, siete tutti così. Io pensare penso bene, ma per quello che m’è servito. Sai? Speravo di morire una buona volta, in bocca a te. E invece sono ancora qui. Da milioni di anni.

Il signor L. si portò le mani alla bocca, ma con un movimento convulso le allontanò subito dopo. Prese a graffiarsi la faccia.

– Eravamo grandi e sodi e duri – continuò con la voce di nanola. – Non so cosa sia successo, è passato del tempo, ma basta il tempo a spiegare perché ora siamo piccoli e carnosi e striduli? Basta tirare in ballo la vecchiaia? Per voi sì, ma per noi? Perché prima eravamo altrove e ora siamo qui e lì nella sabbia fradicia, dove ci ha trovati il muto? Come ci siamo arrivati? Non mi ricordo più quasi niente.

– Non capisco – dissi. – Lei doveva aiutare il signor L. e lo sta torturando. Non avevate un accordo? Un patto? Perché gli sta facendo questo?

– Mettiti nei miei panni, fiorellino, vuoi? Sai cos’è l’eternità? Sai cos’è vivere da prima che ci fosse il tempo? E non poterlo dire a nessuno, perché nessuno capirebbe? Almeno prima c’era il silenzio. Adesso sto in un condominio. Che culo. Sai che so cosa c’è dopo la morte? Te lo posso dire: niente. Ho visto nascere il Sole nella sua culla di fiamma e ora io ti chiamo dal fondo dell’inferno.

Queste ultime parole il signor L. le disse urlando e muovendosi verso di me. Poi qualcosa lo frenò, si afferrò il collo all’improvviso e si chiuse in casa. Lo trovarono il giorno dopo, steso a terra da una bevuta di candeggina che gli aveva bruciato e fatto parzialmente vomitare trachea, esofago, stomaco e quanto c’era dentro, tutto fuso in un liquame biancastro. L’esoscheletro di nanola, vuoto e trasparente come quello delle cicale a fine estate, luccicava di sangue in mezzo al vomito.

Giulio Iovine

Bolognese (1987), insegna Papirologia all’Università di Bologna. Pubblica meme e video sui suoi profili Facebook (hashtag #dinosaurifuturi) e Instagram (@giulioprimodelmesozoico), un podcast (Tutti i regni del mondo) e ad oggi, un centinaio di racconti su rivista (linktr.ee/giulioiovine). È membro della redazione delle riviste Spaghetti Writers e Degrado.

Lascia un commento