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CHAMPAGNE SUPERNOVA
Laura Calagna Bambini

Someday you will find me

Caught beneath the landslide 

In a champagne supernova in the sky

Oasis, Champagne Supernova 

Mia sorella si lascerà ammazzare.

Ha più trucco in faccia di quando, da adolescente, era nel periodo emo e si appestava gli occhi di nero. Tiene lo sguardo incollato al piatto, rimesta con la forchetta un pezzo di lasagna smembrato con impegno. Carne-mozzarella-pasta, divide tutto come quando era piccola. Litigavamo tutti i giorni per questo, ma negli anni la discussione si è affinata ed è diventata meno infantile: io le intimavo di sbrigarsi, ché altrimenti nostro padre avrebbe urlato e lanciato il piatto per aria, e lei mi rispondeva che mangiava come le pareva. Le volte che provavamo a gustarci un pasto senza ansia, nostro padre ci teneva sempre a trasmettercela. Credo che per lui fosse un preliminare doveroso: prima il delirio, poi le seghe che si sparava in bagno e che noi sentivamo.

Mia madre riempie il silenzio a questa tavola con un cicaleccio che non ha un particolare interlocutore. «Insomma, Patrizia ha dato della zoccola a Carla sulla tromba delle scale. Roba da non crederci! Per poco non si prendevano per i capelli.»

Fotografia scattata dall’autrice

Bianca ha una macchia sul lato sinistro del volto, si estende dal sopracciglio alla guancia. L’ha seppellita fino a renderla un alone cinereo, ma io so di che colore è la pelle di mia sorella. Una sera, a sedici anni, è uscita dal bagno con i capelli fucsia. Papà, in cambio, le ha sbattuto la testa contro l’anfora all’ingresso. Nei giorni successivi Bianca aveva creato uno strato grigio in faccia: correttore-fondotinta-cipria, e il fucsia risaltava ancora di più.

Mia sorella alza la forchetta, ma la rimette subito giù, non riesce a portarla alla bocca. Ho vissuto troppe volte questo film. Mastico un boccone e osservo Giorgio, mio cognato, che mi scruta di rimando. La lasagna ha un retrogusto acido, ma non è il sugo di mamma, quello è identico da trent’anni: questo è l’esatto sapore del senso di colpa per non aver mai fatto nulla. 

Mio padre guarda la televisione, non si gira verso di noi se non per chinarsi sul piatto. Mi schiarisco la voce. «Ieri ha piovuto.»

Gli altri grugniscono un assenso. Do un calcio alla caviglia di Bianca, lei salta sulla sedia e mi rivolge uno sguardo annacquato. «Eh?»

La mascella di Giorgio si contrae.

«Dovremmo andare a vedere se c’è ancora la Palla giù al campo.»

Le labbra di Bianca si increspano solo per un attimo. Ma è quanto basta.

Mamma si inserisce. «Eravate così carini! Tua sorella ti veniva sempre dietro, Marco, invece di giocare con le bambole. Eri il suo eroe. Giorgio, ti ho raccontato quella volta che…» e riprende a ciarlare senza filarci.

Palla era una cucciola spelata che abbiamo trovato vicino alla rete del campetto, quando Bianca aveva sei anni e io nove. Non potevamo farla venire a casa con noi, così le portavamo da mangiare.

«Non le abbiamo più costruito una cuccia.» La voce di Bianca è un sussurro.

Una notte c’è stato un temporale, la mattina Palla era zuppa, le zampe rigide e la lingua di fuori: la coperta non è bastata a proteggerla. Eravamo troppo piccoli per prenderci cura di noi, figuriamoci di un’altra creatura, ma questo l’ho capito da adulto. Allora era colpa nostra. Potevamo portarla a casa, potevamo metterle altre coperte. Potevamo, ma non abbiamo fatto niente.

«Cuccia? A una palla?» Mamma ride, poi riprende a raccontare a Giorgio di Bianca che voleva allenarsi a calcio con me.

«L’ho portata io» dico.

Bianca non finge di non capire. «È abbastanza grande?»

Mando giù un altro boccone, carne-mozzarella-pasta tutte insieme. Abbasso la voce. «Direi di sì. Due camere, due bagni e il frigo è sempre vuoto. Palla avrà abbastanza spazio per lei.»

«E non c’è già un’altra Palla?»

Nostra madre mi porge l’unica domanda a cui non voglio rispondere. «Marco, ma alla fine perché Lele è rimasto con la madre? Possibile che non riesci a importi? L’avvocato che dice?»

Porto le mani davanti alla bocca, fisso tutti prima di fermarmi su mia sorella. «Lele non sta bene, mamma. Irene non se l’è sentita di farlo venire, a rischio che…»

«Che cosa? Noi siamo i nonni! È anche…»

Smetto di ascoltare. Mio figlio di sei anni stamattina mi ha apostrofato con: «Non ci voglio venire dai nonni, c’è nonno che strilla e lancia le cose. Come facevi tu quando stavi con noi!» Si è tirato indietro, ha staccato il braccino dalla mia mano. «E non voglio stare neanche con te! Sei cattivo!» Ed è scappato dietro le gambe della mia ex, che a onor del vero l’ha rimproverato.

Non voglio prendermi in giro con quelle stronzate che si dicono in questi casi: è stata la madre a inculcargli certe frasi, è lei che te lo vuole togliere, a me quella non è mai piaciuta.

La verità è che mio figlio a sei anni ha più coglioni di me e ha già capito che merda sia il padre. Cosa che io ho scelto di non fare.

Bianca liscia la tovaglia. Vorrei che mi guardasse, che mi parlasse con gli occhi come da bambina, invece gioca con l’anulare sinistro come se spostasse un anello. Ma al dito ha un solco. L’ultima volta che l’ho vista indossava la vera. «La Palla è rimasta incastrata nella rete» dice.

Certo, Bianca, è successo tante di quelle volte. Potevo mettermi fra te e papà e non l’ho mai fatto. Ti ho lasciata incastrata nella rete della nostra infanzia, sono rimasto a guardare che ti incastrassi nella stessa rete da adulta. Ho ricreato perfino lo stesso campetto, con la stessa squadra e lo stesso schema di gioco, finché la mia ex non mi ha mandato affanculo.

Giorgio ci osserva sfacciato, ma noi insieme lo siamo più di lui.

Faccio spallucce. «La taglieremo.»

«La rete è tosta.»

Cerco sulle sue labbra l’increspatura di poco prima, lì dove siamo io e lei.

Potevi dirmelo, potevo non fare finta di non essermene accorto, potevamo. Di nuovo. Ma non sono cose che si fanno così, no? Potevo non crederti, potevi sentirti giudicata, potevamo. Ma possiamo ancora. «Useremo la fiamma ossidrica.»

Bianca ride spostando il volto di lato, come non la vedevo fare da anni. «Non so se si può» diventa seria.

«Non ho detto che sarà facile, ma ho le chiavi dentro la giacca, nella tasca interna a sinistra.»

«Cosa?»

«Le chiavi della cuccia.»

Mia sorella ha uno scatto. Do manforte ai pettegolezzi di mia madre e assesto un altro calcio a Bianca, ma lei non si alza. I suoi occhi sono stanchi. «No, Palla è rimasta sola, non si può cambiare la storia.»


Di tanti giorni, Marco, dovevi accorgertene proprio oggi. 

Annodo la corda, mi assicuro che stringa bene. Se mi regga o meno lo scoprirò tra poco. Fisso il lampadario. Mi sono informata: la perdita di coscienza è quasi istantanea, ma potrebbe volerci qualche minuto. Un paio, forse cinque? Oltre sarebbe crudele.

Fotografia scattata dall’autrice

Scusa, fratellone, anni fa mi sarei fatta salvare volentieri; adesso non mi va più. Avrei dovuto ricominciare daccapo: ambientarmi in casa tua, cercarne un’altra per me, impararne gli angoli per andare al bagno di notte senza accendere la luce, studiare il getto della doccia, lo spazio tra il gabinetto e il bidè. Magari avrei cambiato taglio di capelli, lo fanno tutte. Magari sarei dimagrita, o ingrassata. Magari avrei ripreso a uscire con le mie amiche, o me ne sarei fatte di nuove. Magari mi avrebbe ammazzata lo stesso. Comunque avrei dovuto dare spiegazioni, e non ne ho voglia. Tu non ci saresti stato e non ci sarebbero stati i nostri genitori né le amiche, le colleghe o i parenti. Quella di stare accanto alle vittime è una bella favola a cui non abbiamo mai creduto. Tu per primo: potevi riscriverti, ma hai rimandato indietro la puntata della nostra vita e, invece che restare spettatore, ne sei diventato protagonista.

Mi assicuro che il biglietto sia ben visibile sul tavolo. Sta per tramontare il sole, voglio farlo prima che cali la notte. Giorgio è andato al lavoro dopo pranzo, non tornerà prima di mezzanotte. Quanto godo al pensiero di quando scoprirà che il biglietto non è per lui e che ho versato i soldi sul conto fiduciario di tuo figlio. Tuo cognato potrebbe nascondere il biglietto, ma ne ho data una copia al notaio. Dopo averlo fatto mi sono masturbata.

Mi sono regalata una lunga doccia, ho indossato il tubino bianco che mi vietava di mettere perché ti si vede tutto e la gente che deve pensare di me? Ho spruzzato il profumo alla vaniglia che mi hai regalato: la boccetta è ancora piena, a lui dava così fastidio. Ho seppellito i lividi sotto al solito trucco. Non esiste che mi trovino sciatta. 

Salgo sullo sgabello, oltre la finestra il cielo è rosa. Dico ad Alexa di far partire Champagne Supernova e stringo bene la corda, mi godo la canzone fino al punto di rottura. Spingo lo scanno.

Mimo un bacio verso gli ultimi raggi del sole, e lì ti rivedrò.

Laura Calagna Bambini

Classe ‘95, è nata e vive ai piedi del promontorio del Circeo. Non potendo diventare avvocato del Diavolo, dopo la laurea in Giurisprudenza è diventata HR Recruiter. Ascolta solo la musica classica e il rock psichedelico e ha una passione smodata per gli animali ridicoli. Suoi racconti sono apparsi su diverse riviste e antologie. Frequenta la Scuola di Itaca Colonia Creativa, e nel 2023 ha vinto il Premio Speciale Under30 del Torneo IoScrittore. A volte si prende pure sul serio.  

Mail: laurabambini29@gmail.com

Instagram: @libridimare

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