MORSI La prima call di Scomoda in collaborazione con FoodNet, per sostenere il progetto di prevenzione primaria dei disturbi alimentari, dedicato in particolare ai più piccoli 🧡

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LA PESA
Marta Grima

La pesa inizia puntuale ogni mattina alle otto e mezza. La pesa. Un termine che non ho mai sentito oltre le mura della palestra e che associo più agli animali che alle persone. Tipo le mucche e i maiali che vengono pesati in pubblico alle fiere. La pesa.

Per me l’incubo iniziava ore prima, durante la cena. Sebbene alcune di noi si fossero rivolte a una nutrizionista e avessero un piano alimentare da seguire, era la Zarina a decidere cosa e quanto dovessimo mangiare. Dopo le diciotto niente carboidrati, diceva. No pasta, no pane, no patate, no pizza.

Io di solito mi mettevo nel piatto mezza fettina di petto di pollo, tre carote bollite e qualche pomodorino scondito. Li allargavo sulla superficie bianca; volevo riempire quel cerchio vuoto, fingere che stessi consumando la porzione giusta, che mi stessi nutrendo a dovere. Bevevo solo mezzo bicchiere d’acqua, altrimenti la mattina dopo sulla bilancia sarebbero comparsi dei pericolosi grammi in più e avrei sforato il peso consentito. 

Prima di addormentarmi mi contorcevo nel letto per i crampi allo stomaco, sentivo le budella ribellarsi per la mancanza di sostentamento. Poi cominciavano gli incubi. La pesa. I rimproveri della Zarina, le umiliazioni di fronte alle altre allenatrici e alle mie compagne di squadra. Sei un porco, urlava. Sembri un elefante, commentava quando atterravo da un salto. La ginnastica ritmica è per farfalle, non per ippopotami, ripeteva alla fine di ogni allenamento. 

A colazione con una smorfia di disgusto buttavo giù un espresso senza zucchero e ingurgitavo due fette biscottate integrali, ma solo dopo aver assunto la mia dose quotidiana di lassativi. I diuretici, invece, li prendevo la sera. Pativo la fame ma ingoiavo medicine per svuotarmi. Alle otto e mezza ero prosciugata e dunque pronta per la pesa.

Ce ne stavamo lì, in fila, con addosso solo dei calzoncini e un top nero. L’ordine di salita sulla bilancia lo decideva la Zarina, in base a quanto apparivano gonfie le nostre pance scoperte, al livello di ansia che traspariva dalle nostre facce. Più sei agitata e più penso che hai qualcosa da nascondere, diceva. 

Di solito io ero la prima o la seconda. Dal mio arrivo in accademia non era passato molto tempo prima che la Zarina cominciasse a tenermi sotto speciale sorveglianza. Hai una costituzione robusta, sottolineava spesso, tendi a ingrassare. Ho le ossa grandi, ribattevo io, ho preso da mio padre. Sì, adesso si chiamano ossa grandi, mi faceva eco lei scambiandosi risolini e occhiate con le sue assistenti. 

Ricordo i secondi precedenti l’inizio del rituale. La pesa. La pianta dei piedi a contatto con il pavimento ghiacciato e i peli ritti, l’angoscia, l’intestino in subbuglio, una perversa eccitazione verso i genitali. Percepisco ancora le gocce di sudore freddo scorrere lungo la colonna vertebrale, le mani umide. La pesa. E poi il mio nome gridato, le lettere scandite una a una. 

Mi ravviavo i pochi capelli in testa e soffiavo forte, perché anche il fiato nei polmoni ha un peso, e mettevo il piede sul piatto ruvido, logoro e consumato al centro dai nervi di chi negli anni ci ha patito sopra.

L’ago correva dietro il vetro bombato, oscillava a destra e a sinistra prima di assestarsi. Io ero immobile, non respiravo, mettevo in pausa il sudore. Provavo a immaginare di staccarmi da terra, fluttuare leggera senza carne né sangue, solo volare azzerando i chili sulla bilancia.

Il mio nome di nuovo strillato, i suoni cadenzati. Sei oltre il peso consentito, sentenziava col braccio destro la Zarina, sei sopra di centoventi grammi. Sembri una lonza, aggiungeva scuotendo il capo. Cinquanta giri di corsa intorno allo stabile o dirò ai camerieri dell’albergo di servirti tagliata a fette per la cena, minacciava. Le altre allenatrici accennavano un sorriso, io cercavo sostegno dalle mie compagne ma loro si guardavano gli alluci. Intorno a me un silenzio tagliente, tangibile come una lama affilata e pericolosa.

Fa freddo, replicavo. Così la prossima volta impari a ingozzarti, diceva la Zarina. E chiamava il nome successivo al mio. Infilavo le scarpe, cominciavo a zampettare sulle gambe magre, raggiungevo la porta e consentivo all’aria di pungermi. Eravamo io e una miriade di spilli sospesi, cuspidi pronte ad attraversarmi, ferro che trafigge, organi che si rompono, liquido rosso che schizza. 

Correvo, mi lasciavo pugnalare, preda dilaniata, ammasso di fasci muscolari sfilacciati. Correvo, lacrime glaciali, mascella serrata, pugni stretti. Correvo, ruggito liberatorio, suole di gomma sull’asfalto duro, ginocchia sbucciate, impronte dei sassolini sui palmi delle mani, polvere sotto le unghie.

Marta Grima

Ho 33 anni, vivo a Pesaro e sono una giornalista e una libera professionista nel campo del marketing e della comunicazione. Dopo la laurea in Giurisprudenza ho mollato la carriera legale per seguire le mie passioni. Recensisco libri per la rivista Il Rifugio dell’Ircocervo e ho pubblicato racconti sulle riviste L’Equivoco e CrunchEd. Ho in cantiere un romanzo che spero di poter pubblicare presto.

Instagram: @therealgrimaus

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