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SCARPETTE ROSSE
Barbara Vuano

Le scarpe hanno la punta arrotondata, la pelle morbida, niente tacco ma una comoda zeppa di tre centimetri. Sono di un azzurro cartadazucchero ormai sbiadito. Le infila con la facilità di una ciabatta. Si adattano perfettamente al piede. Le dita ne hanno deformato la linea, si sono scavate la tana ognuna a suo modo: le sporgenze delle falangi del secondo e del terzo all’insù, la spinta del mignolo all’infuori.

Le tremano le gambe: sono due notti che non dorme, dopo il parto non ha chiuso occhio. Quanto ha desiderato questo bambino. Appena gliel’hanno appoggiato al petto, dopo l’intervento, vivo e urlante, ha provato una stretta al cuore. Il suo profumo le è andato dritto al cervello, un misto di pelle, cerume e mucosa non lavata che veniva dalla profondità del suo corpo. Da oggi in poi dovrà proteggerlo, sarà lui il suo centro, sua luce e suo sole. Lo ama più di qualsiasi essere esistito prima. Sarà capace di amarlo sempre così? L’ha chiamato Benedetto. Durante il pelle a pelle si agitava, piangeva: era ancora sotto shock. È già una fortuna che non abbia subito danni, si è ripreso subito appena lo hanno tirato fuori. Tutto quel patire: dodici ore di doglie fortissime, nemmeno la vasca di acqua calda le aveva attenuate. Le avevano spiegato che Benedetto era posteriore, girato con la faccia in avanti: uscendo avrebbe visto il cielo, non il pavimento. Il travaglio sarebbe stato più lungo e doloroso, ma comunque fisiologico. Lei aveva rifiutato l’epidurale, voleva sentire bene quel che succedeva, collaborare alle spinte. Ma Lucina, dea del parto, aveva intrecciato le dita e accavallato le gambe, come quando voleva impedire la nascita di Ercole. La testa non scendeva, la porta del suo ventre restava chiusa; improvvisamente era calato il battito fetale, cesareo d’urgenza, ecco come era andata a finire. 

Nei giorni successivi non è andata meglio. Nella camera in cui l’avevano messa c’era un altro bambino. Stava buono nella culla, in braccio a sua madre apriva certi occhioni blu scuro che avrebbero fatto innamorare chiunque. Benedetto non la guardava mai, stringeva i pugnetti e strizzava gli occhi mentre spalancava la bocca per urlare. 

Ha dovuto pregare che glielo tenessero nella nursery. Tutto al contrario, una sconfitta dietro l’altra. In terza giornata finalmente le è arrivato il latte. Dal niente al troppo. Si è trovata zuppa da un momento all’altro, con i seni così duri che si sono ingorgati. Benedetto era ancora più incazzato perché sentiva il latte vicino e non riusciva a succhiarlo, ha dovuto estrarlo con la pompetta elettrica. Si è sentita una mucca. L’ingorgo si è sciolto: le sono venute le ragadi.

Filippo carica Benedetto nel porte-enfant e le comunica che non potrà fermarsi a casa con lei, deve tornare subito al lavoro. Lo segue fino alla macchina, incerta sulle gambe: i passi sono quelli di un’altra, le mammelle gonfie impregnano le coppette assorbi latte e le macchiano i vestiti.

Benedetto tace, l’automobile lo addormenta. Filippo li deposita sulla porta di casa e se ne va. Dentro tutto è ordine e silenzio. Gina lascia le decolleté azzurre all’ingresso e infila le pantofole dello stesso colore. Appoggia il porte-enfant sul mobile fasciatoio della cameretta; Mite viene a strusciarsi sulle sue gambe, fa le fusa, ma Gina la scaccia con un calcio: «attenta a te, gatta, non avvicinarti». Controlla attentamente il lettino preparato prima di andare in ospedale: materasso con un traverso anti pipì, lenzuolo di sotto in jersey di cotone, quello di sopra di percalle con bordo decorato, federa abbinata, copertina bianca di mohair, è tutto. Improvvisamente è sicura di aver dimenticato qualcosa. Ma cosa? Nei cassetti c’è il guardaroba per i primi mesi, l’ha studiato a fondo, non difetta di niente. In cucina ci sono i biberon, i ciucci, lo sterilizzatore, cos’altro manca? 

Un leggero ronzio di elettrodomestici l’avvisa che tutto funziona, i ripiani sono lucidi e puliti. Ma c’è qualcosa che non va.  Benedetto si è svegliato, è zuppo di pipì, povero bambino. Dovrà rifare la medicazione all’ombelico, ha bagnato anche quella. Che impressione quel tubo essiccato che gli pende dalla pancia, lo disinfetta con l’alcool a novanta gradi e lo avvolge nella garza sterile. “Il cambio del pannolino è una faccenda banale.” Banale un corno. Quello si divincola, scalcia, strilla. Gina non riesce nemmeno a chiudere gli adesivi, li ha messi tutti storti, la pipì uscirà di lato. Cerca di rimediare ma strappa la plastica, deve buttare via tutto e ricominciare da capo. Questo bambino non sta fermo, ha il diavolo in corpo. Mentre è quasi riuscita nell’operazione Benedetto emette uno spruzzo. È cacca. Tace. Ha uno straordinario odore di disfacimento e germogliazione. Deve gettare il pannolino e ricominciare per la terza volta. Nemmeno infilargli la tutina è facile, con quelle gambette che si estendono e flettono a mitraglia.

Adesso di certo è ora di poppare: gli offre il capezzolo come le hanno insegnato in ospedale, lui lo afferra con rabbia e lo tira, Gina vede le stelle. Le ragadi fanno male, ma pazienza, dopo i primi minuti si attenua.

Mentre succhia Benedetto è beato, le tocca il seno con la manina, lo esplora. La guarda negli occhi, Gina è in estasi, poi tira con troppa foga: si stacca dalla tetta, muove la testa di qua e di là come se non la volesse più e poi la volesse di nuovo. Attacca un singhiozzo isterico. Cosa vorrà mai? Gli propone l’altro seno, è peggio: ha ingurgitato aria. Lo raddrizza, gli batte leggermente la schiena perché faccia il ruttino, ma se urla così non gli uscirà mai. Questo bimbo è impossibile.

Fotografa scattata dall’autrice

Da quale punto oscuro dell’universo è giunto fino a lei? 

Ti saluto o piena di ansia, la nausea è con me. È stato così fin dall’inizio. Annunciata dall’aroma del caffè, prima tanto amato, montava fino al vomito. Mi accompagnava ogni mattino, non mi dava tregua: mi consumava, invece di aumentare perdevo  peso, ero diventata il fantasma di me stessa.


Dopo dieci minuti di colpetti e di su e giù, butta fuori tutta l’aria cha ha ingoiato. – sembra che abbia bevuto mezzo litro di birra tutto d’un fiato –  può attaccarlo dall’altra parte. In totale fra una tetta e l’altra, le pause e i fiati ci ha impiegato un’ora. Sarà sempre così, mio sole, mia luce?

Non osa pensare alla notte. Intanto in cucina il ronzio si è fatto così forte da farle temere uno scoppio. Telefona a Filippo. Le risponde con un messaggio:

“Sono in una call con un cliente

cosa c’è?” 

“Un rumore in cucina, 

ho paura che scoppi qualcosa.”

“Non scoppierà niente, 

non abbiamo nemmeno il gas 

è tutto elettrico. 

Stai tranquilla, vengo appena posso.”

Sono le quattro del pomeriggio, non arriverà prima delle sette.

Il telefono è pieno di messaggi di felicitazioni. Non ce la fa a rispondere. Alle quattro e mezza arriva sua sorella con una enorme cicogna di cartone da piazzare davanti casa, riempie di cerimonie il bambino che la guarda incantato. 

«Tienimelo», le dice «io non ci riesco». Mentre gironzola per la casa con Benedetto in braccio, Olga la aggiorna sulle ultime novità di famiglia: il cancro di loro padre e le lamentele della madre. 

Gina non ascolta. Vorrebbe solo che se ne andasse. 

Tempo mezz’ora: le riconsegna il figlio e se ne va. Benedetto adesso è sveglio e vuole stare in braccio, appena lo mette giù piange. Lo culla andando avanti e indietro, avanti e indietro e infine crolla sul divano. Chiude gli occhi, si addormenta. È il suono della voce di Filippo a risvegliarla: «Chi c’è qua?» dice «il mio pulcetto!», ha il bambino in braccio e lo sta ricoprendo di bacini, gli fa le pernacchie sulla pancia, lui sembra gradirle. 

Tutti sono meglio di lei.

«Regina» solo lui la chiama per intero, preciso come nella sua contabilità. «Sei matta ad addormentarti così, potevi schiacciarlo oppure lasciarlo cadere, dormivi con lui in braccio».

«E lui, cosa faceva?».

«Era sveglio e ti guardava».

«Userò la fascia d’ora in poi».

«Peggio ancora, se ti addormenti con lui nella fascia potresti soffocarlo».

«Potrei soffocarlo», si ripete, potrei soffocarlo

Si riprende il bambino, Filippo va in cucina e stappa un Franciacorta, ne riempie due bicchieri.

Gliene offre uno: «Brindiamo a Benedetto!».

«Non posso, l’alcool passa nel latte».

«Dormirà meglio».

Non se lo fa ripetere due volte, lo beve quasi d’un fiato e le gira subito la testa. 

«Vieni adesso, ho ordinato la cena al giapponese: sushi e ramen. A proposito, in cucina non c’è nessun rumore».

«Prima c’era». 

«Mah, sarà stato il compressore del frigo».

Stanno ancora cenando quando Benedetto riprende a protestare, piange, ha fame. Gina gli dà la tetta mentre mangia.

Finita la poppata Benedetto urla, diventa paonazzo, scalcia. Sarà così sempre, non saprò mai cosa vuole. 

Filippo prova a prenderlo, rinuncia subito e glielo riconsegna.

Lei tenta tutti i tipi di dondolii e posizioni: dritto, sdraiato a pancia in su, a pancia in giù. Niente da fare. 

Put, put, put, finalmente tace, l’aria esce da sopra e da sotto, il bambino è tutto qui: ruttini e scorregge. 

Forse non è solo l’aria, sono coliche, certi bambini le hanno. A lei ne è capitato uno che le ha. Urla e strepiti, ogni sera, ogni notte, andrà avanti così per mesi, perché non ho tenuto l’altro?.

Al cambio successivo la cacca ha un aspetto mucoso, tipico delle coliche. Gli massaggia la pancia, è peggio, strilla più forte. Sveglierebbe un condominio; va avanti così dalle otto a mezzanotte, poi crolla.

Cosa sarà di lei quando dovrà tornare al lavoro? Ha promesso di rientrare a tempo parziale quando Benedetto compirà tre mesi. Non ce la può fare.

Non ce la farò, non ce la farò mai, mi consumerà il sonno e il cervello, mi manderà a puttane la carriera

Il suo è uno studio legale, non può chiamarsi fuori per troppo tempo. 

Un vagito, un altro vagito, eccolo, è sveglio di nuovo. Gina guarda l’orologio: ha dormito tre ore. Si alza barcollando. Improvvisamente le balena una visione. Un paio di scarpette rosse. Ecco cosa ha dimenticato! Qualcuno – non ricorda chi – le aveva raccontato che il dono delle scarpette porta fortuna. A Benedetto non ne hanno regalate nemmeno un paio. Ma perché rosse? Dalla memoria affiora confusa la fiaba di Andersen: le scarpette rosse implicavano la condanna a ballare senza sosta, addirittura ballavano da sole, con i piedi mozzati dentro. 

Che orrore! No, le scarpe dimenticate non sono per Benedetto, ma per me. Adesso ricorda. Prima del parto aveva visto in vetrina un bel paio di scarpe da ginnastica bianche con inserti dorati. Le aveva proprio desiderate. Erano Hogan, costavano oltre trecento euro e non le aveva comperate. L’aveva raccontato a Filippo, nella speranza che prima o poi gliele avrebbe regalate. 

Invece nell’armadio ci sono delle mitiche Gianvito Rossi color sangue, tacco a stiletto da 105 mm, le sono costate un occhio della testa ma Filippo le adora. Il solo fatto di guardarla infilare i piedi in quegli splendidi oggetti appuntiti gli induce l’erezione. 

Passate tre settimane Gina non dorme ancora più di tre, quattro ore per notte. Non sa più che giorno è, che ora è, barcolla. Culla il bambino e canta: ninna nanna ninna oh, questo bimbo a chi lo dò, lo darò al lupo nero che lo tenga un anno intero.

I piedi vanno da soli, dentro le pantofole rosse. Arrivano dove ancora non sono, lei è qua e i suoi piedi sono già là. Autonomi e indipendenti. Intraprendenti. Tutto va come non dovrebbe andare. Le lochiazioni dovevano essere scarse e brevi, invece sono abbondanti e rosse. Continua a perdere sangue. L’utero non si è chiuso. Le ragadi non sono guarite.

Fotografa scattata dall’autrice

Si affaccia alla porta del bagno e fa un balzo indietro. C’è una donna là dentro: ha due occhiaie profonde e il viso scavato. È orribile! Le assesta un pugno in faccia. Lo specchio va in frantumi e le ferisce la mano. Il sangue esce copioso, imbratta il pavimento. Deve fermarlo, il cuore accelera, presto, presto, prima che Benedetto si svegli. Si fascia la mano, raccoglie i cocci dentro un secchio. Tutte quelle donne sporche di sangue la fissano con occhi da uccellacci. C’è uno spuntone rimasto attaccato alla cornice che sembra un pugnale, potrebbe affondarlo nel petto e farla finita. Nel petto di chi? No. No. No! 

Adesso sa cosa fare. Prende un lenzuolo, lo taglia e lo divide in parti. Il suono della tela che si strappa la calma. Con i pezzi di stoffa che ricava copre tutti gli specchi della casa. Respira, il cuore pian piano smette di martellare.

Va alla finestra, c’è una donna fuori, vicino alla cicogna che ha portato Olga. Ha l’aria sfatta, il vestito macchiato, le gambe gonfie, ai piedi un paio di scarpe rosse, stinte e sformate. Muove la bocca ma non emette suono. Mima con le mani il gesto di schiacciare qualcosa. D’improvviso Gina capisce, va di là, Benedetto dorme nella culla, beatamente disteso a pancia in su; ha un respiro regolare, è bello quando è così. Scosta la tenda, guarda la donna che annuisce. Afferra un cuscino e lo appoggia sulla faccia di suo figlio, preme. Il piccolo si divincola, cerca di urlare, basta poco, poi smette.

Gina scalcia, butta via le coperte, qualcuno la sta soffocando. Si sveglia in un bagno di sudore.

Sono le quattro, si alza, presto Benedetto popperà. Filippo sta dormendo di là, sul divano. Non si è accorto di niente. Non si accorge mai di niente. Nemmeno dei drappi delle lenzuola sugli specchi, tanto li toglie prima che lui arrivi.

Mentre lo allatta Benedetto la guarda: cosa c’è in fondo al blu notte dei suoi occhi?

I ricordi si affastellano. L’aroma del caffè e i profumi usuali che diventano insopportabili. Il senso di nausea lungo tutta la giornata. L’acidità che monta e i conati di vomito in bagno. Era già accaduto una volta. L’aveva capito prima di qualsiasi analisi. Quel mutamento del corpo: un’invasione, un’occupazione abusiva. La carriera di avvocata appena agli inizi, Filippo preso dal lavoro fin sopra i capelli, nessuno dei due sentiva il bisogno di un figlio. Ne aveva di tempo davanti, prima dei quaranta.

Il seno gonfio, la pancia un po’ piena, un corpo che fioriva senza che lei se ne accorgesse. Solo dopo lo svuotamento le si era prospettata la tragedia. Non rimpiangeva il bambino, ma il suo corpo perduto. Si era percepita ampia, i sensi acuiti, la pelle recettiva. Si era piaciuta. Il bambino nel suo corpo era una duplicità sconosciuta. Un corpo misterioso che ti ruba energie, ti sottrae nutrimento, un corpo ladro, minaccioso. Qualcosa che naviga dentro di te e ti porta al mondo, a un altro mondo. 

Fotografa scattata dall’autrice

Perché hai avuto paura? Per i tuoi calcoli di convenienza, io non rientravo nei piani: tutto misurato, tutto programmato, che terribile errore. Ah come ti piaceva quel ladro! Come lo rimpiangi adesso, perché mi hai eliminato? Una colpa irrimediabile. Hai rinunciato alla parte migliore di te, alla parte ancestrale. Sei stata cieca. Non hai capito la pienezza, non hai capito la bellezza. Io sono te e tu sei me, un’illusione dividerci, muoio io e muori anche tu. Ti ho portato con me nel buio, il buio a cui mi hai condannato, mi ritroverai nei pianti di mio fratello, nei suoi occhi senza fondo, nelle sue richieste continue, nella sua fame, nella sua rabbia.

Sta preparando il bagnetto per Benedetto: acqua a trentasette gradi, una spruzzata di Aveeno; la sostanza lattiginosa si coagula, si agglutina, diventa opalescente. 

Sembra un feto in un sacco amniotico.

Dio abbi pietà di me, lui è il bambino giusto, non l’altro.

Gli amici hanno ricominciato a venirli a trovare. Gina è uno zombie, ma loro non ci fanno caso. Loris capita sempre senza preavviso, giusto all’ora di cena. Racconta che è andato a caccia ieri, nel Collio, ha incontrato per la prima volta un gatto selvatico. Ce ne sono molti nella zona, ma è difficile vederli, sono i fantasmi del bosco, hanno gli occhi gialli. 

Se si potesse cacciarli, gli avrebbe già sparato. 

Gina galleggia nella vasca a farfalla, la pancia prominente sporge dall’acqua, si contrae, lo spasmo è lancinante, dura un minuto, due, un tempo lunghissimo. 

Adesso è in sala parto, accucciata, l’ostetrica dice: «aspetta la contrazione e spingi».

Gina ce la mette tutta, si spreme. Emette un fagottino viscido, nero e peloso, sembra un topo. Appena tocca terra si trasforma, apre le ali, le sbatte, tenta di spiccare il volo. Non fa in tempo, l’ostetrica gli si piazza davanti: ha gli occhi gialli, l’espressione malvagia. È un gatto selvatico, maestoso, la coda folta sollevata. In un balzo lo afferra e lo divora.

Un urlo.

Si sveglia.

Anche Filippo si sveglia.

«Che cos’hai?». 

«La gatta!».

Si precipita in camera di Benedetto: trova la gatta accoccolata nella culla. Grida: «aiuto!». 

Filippo accorre. 

Gina si porta le mani alla gola, annaspa, singhiozza.

«Cos’è successo?».

«Non posso guardare. Non posso. Mandala via!». Non mandarla via!

Filippo afferra l’animale per la collottola.

«Mite, fuori di qua!» la sbatte fuori dalla stanza, quante storie, povera gatta. 

«Fil, era… stava per mangiarlo». Mangialo, mangialo!

«Regina calmati. Mite non deve entrare nella culla, d’accordo, ma non ha mai morso nessuno. Cosa ti prende?».

«Non la voglio qua, mandala via!» non mandarla via «Ho sognato che lo mangiava».

Sarà di nuovo notte, di nuovo buio. Ti sveglierà piangendo, accorrerai di corsa, ti ruberà i sogni, ti ruberà il sonno. Ti succhierà le ultime forze rimaste, le ultime fantasie. Non avrai più senso se non per lui, non avrai più corpo se non per lui, non avrai più tempo, se non per lui. La vita che non hai voluto dare a me se la succhierà lui.

Gina prenota il parrucchiere solo per avere un motivo per uscire senza Benedetto, ha chiesto a sua sorella di tenerle il bambino per un paio d’ore. Filippo ama i suoi lunghi capelli. 

Chiede al parrucchiere un taglio cortissimo, quasi mascolino. 

«Sei sicura? Non mi pare il tuo», obbietta, ma poi esegue.

Fotografa scattata dall’autrice

Zac, zac, ciocca dopo ciocca, la faccia emerge più scarna, più spigolosa, lievemente spettrale. È la sua rivincita, la sua vendetta. Si guarda nello specchio e la lenta trasformazione le dà un brivido di gioia. Dietro lo specchio un’altra cliente sta facendo il colore. Il mobile che le divide è aperto nella parte inferiore: può osservare i piedi e le gambe della signora. Veste un paio di jeans attillati, blu notte, ai piedi calza un meraviglioso paio di scarpe da ginnastica bianche con inserti dorati, proprio come quelle che lei desiderava. Gina osserva il proprio busto completarsi con le gambe che ha di fronte: è un corpo nuovo, forte, definito. Quelle gambe sono solide quanto le scarpe, le stanno bene, sembrano proprio le sue gambe, sono le sue gambe, sono le sue scarpe. Lo saranno d’ora in poi. Le Gianvito Rossi color sangue, tacco dieci, finiranno nell’immondizia.

Non lascia nemmeno il tempo al parrucchiere di asciugarle i capelli, deve uscire da lì al più presto, prima che la cliente di fronte se ne accorga e si riprenda le gambe. 

Paga ed esce. I nuovi jeans le vanno perfetti, le scarpe sono comodissime. Si sente alta e dritta, come non lo era mai stata. Libera di correre, sicura di saperlo fare. Correrà fino a deformare le scarpe, fino a quando le dita si scaveranno la tana, ognuna a suo modo: le sporgenze delle falangi del secondo e del terzo all’insù, la spinta del mignolo all’infuori.

Barbara Vuano

Barbara Vuano è nata a Belluno. Vive fra Udine e Grado. Ha frequentato corsi di scrittura della Bottega di Narrazione e di Immersioni Letterarie.  Ha pubblicato le raccolte poetiche Il tempo ti guarda scorrere, (Samuele Editore 2017) e Benedetti i bambini (qudu libri 2024); il saggio antropologico Nascere nella cenere, (Forum Editrice Universitaria 2022) e il libro inchiesta sulle ostetriche Madri Insieme, (edizioni Dars 2024). É presente nell’antologia di racconti Donne che raccontano storie a cura di Daniela Rossi (Consulta Libri e Progetti 2024). Suoi racconti sono stati pubblicati sulla rivista online Spazinclusi. È risultata semifinalista al Premio Italo Calvino racconto 2024 e finalista al premio RacconTiAmo città di Fiuggi 2024.

Mail: fiascaris.vuano@gmail.com



5 risposte

  1. Avatar Silva
    Silva

    Un racconto che scuote, sconvolge, che tiene incollati. Due bambini, uno solo nato, una madre che va a pezzi davanti alla propria inadeguatezza, in quel dualismo di desiderio e respingimento che è naturale nel post parto eppure è così scabroso. L’autrice scava nel profondo di un disagio, per fortuna spesso solo momentaneo, che fa percepire al lettore una madre dilaniata nell’animo come lo è stata nel corpo, la carne squarciata e la vita di prima che va in frantumi. Un disagio a cui il partner non accede, sordo al dolore come lo è stato alla richiesta di scarpe comode e bellissime, attento ai propri bisogni e solo a quelli, come suo figlio.

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  2. Avatar Simonetta Paravano
    Simonetta Paravano

    incubo viscerale e sogno meraviglioso … mi ci ritrovo pienamente

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    1. Avatar BARBARA VUANO
      BARBARA VUANO

      Hai colto nel segno Silva è proprio quello che ho cercato di comunicare, sono contenta che sia arrivato, grazie

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    2. Avatar BARBARA VUANO
      BARBARA VUANO

      Grazie Simonetta!

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  3. Avatar Nicoletta Arduini
    Nicoletta Arduini

    Quanti colori servono per raccontare la nascita…di una madre! Non le solite e facili tinte pastello… ci sono tinte scure, che si mescolano, creando ombre difficili da definire. Ho trovato il potere generativo di una donna : il figlio dentro di lei come un seme nella terra esce chiamato alla luce e alla vita. Ho trovato anche la paura che germina dentro la mente, quando non ci si sente sicure di quel potere, non si crede in quella capacità. L’unica via d’uscita è ritrovare la propria radice, il proprio passo.

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