Tempo di lettura: circa 10 minuti

REGALO DI COMPLEANNO
Francesca Barracca

Comincia con una coltellata.

Fitte acute e intermittenti, lame che affondano nella carne e poi più giù, in profondità, nei muscoli, nelle viscere, ma anche più su, tra addome e sterno. Non posso respirare senza far partire all’istante un’altra coltellata, buttare fuori l’aria rilassando il petto e tutti i muscoli che ci stanno dentro senza provocarmi squarci interni e lacrime involontarie. Non posso neppure alzarmi, sedermi, stendermi. Il mio corpo è avvolto da un filo spinato invisibile che, nel buio della notte, mi tiene legata al materasso. 

In realtà era cominciata molto prima di quelle coltellate alla pancia, ma io non lo sapevo.

Frequentavo la prima media. Per evitare chiacchiericci e distrazioni varie, i professori avevano deciso di distribuire i posti in modo tale che per ciascun banco ci fossero rispettivamente un maschio e una femmina. Nulla di più imbarazzante in quel momento della vita in cui il tuo “essere femmina” sa essere ingombrante e invadente come non mai. 

«Prof, posso andare in bagno?»

Quella di storia e geografia alzava gli occhi dal registro, mi scrutava da capo a piedi, come per accertarsi che non fosse questione di vita o morte: «Non potevi andare nell’ora precedente?»

«Ci sono andata già, ma devo andarci di nuovo. È urgente».

Chissà perché mi illudevo ogni volta che con quella formula potesse comprendere da sola le mie necessità, senza l’aiuto di un apposito codice femminile. Invece, scuoteva il capo e ribadiva che sarebbe stato meglio aspettare l’ora successiva, perché lei doveva spiegare. Così, a testa bassa e labbra strette, pregando Dio che me la mandasse buona, tornavo a posto. 

Quando arrivava l’ora successiva, era troppo tardi. Mi spostavo di lato per controllare e la puntuale macchia rossa sul legno chiaro della sedia era già lì a ricordarmi che anche stavolta avrei fatto meglio a starmene a casa. Allora iniziava un’operazione delicata: far sparire la macchia senza che il mio compagno di banco se ne accorgesse. Ma Marco se ne accorgeva e prima sbiancava, poi sussurrava Che schifo. Io continuavo a strofinare il fazzoletto bagnato nonostante la macchia fosse ormai svanita: non avevo il coraggio di guardare Marco in faccia. Soltanto quando gli occhi sarebbero tornati asciutti, avrei recuperato la felpa poggiata sullo schienale, l’avrei allacciata intorno ai fianchi e mi sarei preparata a ripetere la stessa procedura di prima, ma con la professoressa di arte. 

Alla fine, trovai il coraggio di parlarne a casa. C’era anche mio padre. Fosse stato per me avrei evitato per vergogna, ma mia madre ci teneva che fosse messo al corrente delle stesse cose che raccontavo a lei. Spesso si era lamentato che noi, “le femmine della casa”, non lo prendevamo mai in considerazione. Le reazioni, però, quando cercavamo una sua opinione, non erano mai quelle sperate. Anche quella volta, se mia madre si preoccupò fin da subito, mio padre sbuffò: «Dobbiamo parlare di queste cose proprio adesso?» Disgustato, allontanò il piatto di pasta e fece per alzarsi. «Non solo spendiamo un capitale per gli assorbenti che dici tu, pure le figure di merda a scuola dobbiamo andare a fare».

Fu mia madre a prendere in mano la situazione chiedendo un colloquio con la professoressa di storia e geografia. Le disse esplicitamente: «Mia figlia ha un ciclo abbondante, deve andare in bagno ogni ora per cambiarsi l’assorbente. Se lei e i suoi colleghi non la mandano, vorrà dire che sarà costretta a rimanere a casa almeno i primi due giorni delle mestruazioni».

Mia sorella, dal letto di fianco, alza la testa: «Prendi un Moment».

«Ma non l’ho mai preso».

«E allora?» Salta giù dal letto, va in cucina, la sento armeggiare con i mobili, le bottiglie e i bicchieri. Un paio di minuti dopo è di nuovo accanto a me, il bicchiere opaco tra le mani. 

Le mie tremano. Bere senza rovesciarmi addosso l’acqua diventa di colpo un’azione complicata. Mando giù e scorgo il mio cipiglio riflesso sul viso di mia sorella. «Quanto ci mette a fare effetto?» 

«Eh, un po’…» 

Quel un po’ suona come una condanna. Aspetto. 

«Devi dirlo a mamma e papà». 

«Ma non posso chiamarli adesso. Gli verrà un infarto».

«Allora quando tornano».

La verità è che non mi va di coinvolgerli di nuovo. Mia sorella conosce bene il motivo. 

«Non mi guardare così. Lo capirà che è una cosa seria, stavolta». 

«Ma tanto ora mi passa».

Fotografia scattata dall’autrice

La stessa consapevolezza mi aveva accompagnata anche quando, a letto con le dita incastrate tra quelle di Giorgio, invece di accarezzare il dorso della mano con il pollice come facevo di solito, stringevo forte il mio palmo contro il suo. Lui interpretava il gesto come un allarme e si fermava, di colpo.

«Ti fa di nuovo male, eh?»

«Forse sono asessuale». 

«Ma che c’entra?» Sospirando, si lasciava cadere di fianco, piegava il gomito sul cuscino e poggiava la guancia sul palmo della mano. «Mica non ti piace o non hai mai voglia di-»

«Non proprio», mi affrettavo a rispondere, «però le altre non hanno questi problemi e immagino che i ragazzi ti abbiano raccontato delle loro grandi scopate, no?»

Allora lui si rabbuiava, io mi sentivo in colpa e concludevo: «Poi mi passa, lo sai».

Ci credo davvero mentre dico a mia sorella che anche stavolta passerà. Solo che poi non passa. Il dolore scema, ma non va via. Rimane un’unica dolorosa fonte di preoccupazione localizzata lungo il fianco destro per circa una settimana. È così che si insinua il sospetto di appendicite. 

«Potrebbe essere, no?» 

Seduto sulla solita poltrona a torturarsi le pellicine delle dita, gli occhi fissi sul televisore, senza alcuna intenzione di perdersi un solo istante della partita più importante di tutto il campionato, mio padre non si volta neppure. Si limita ad annuire, già pronto a rimandare la conversazione a tempi migliori. Di tempi migliori, però, io non sono più sicura di poter godere, plagiata come sono dalla paranoia. Appendicite o meno che sia, io non voglio morire per negligenza. Così mi piazzo davanti allo schermo. Credevo che, dopo anni passati a ricercare attenzioni in questo modo e sentirmi rispondere ogni volta “sei bella, ma non trasparente” almeno stavolta mio padre recepisse il messaggio. Eppure fa un gesto della mano che vuol dire soltanto una cosa: togliti dalle palle. Fossi stata ancora bambina, avrei stretto i pugni e battuto i piedi a terra. Invece, incrocio le braccia al petto. L’età non mi legittima i capricci. Meglio puntare sull’insistenza, la tortura della visione negata fino allo stremo e l’accondiscendenza forzata.

«Allora prenotiamo un’ecografia?» 

È sempre così che va quando ci sono visite ed esami medici da fare. È così che va e così deve andare sempre per non turbare gli equilibri di casa. L’io di ciascuno, in occasione di un qualsiasi malanno, diventa un noi che non può prescindere dal coinvolgimento di mio padre: la sua trasformazione in infermiere è immediata e, in quanto tale, gli spetta gestire in prima persona la salute di tutta la famiglia, quindi sindacare sulla gravità e la non gravità di un sintomo. Il mio, ad esempio, non è un sintomo gravissimo tale da scomodare medici o visite specialistiche costose, ma nemmeno innocuo, perciò decide che una settimana è un tempo di attesa sufficiente per iniziare ad “approfondire”. 

Le conoscenze di cui gode, e alle quali sospetto non si rivolga spesso per non dar l’idea di approfittarne, ci procurano una prenotazione in tempi record. La mattina seguente ho già la sonda dell’ecografo spiaccicata sulla pancia, nuota in un mare di gel talmente freddo da farmi sussultare a ogni suo movimento. La finestra dello studio aperta in un marzo appena iniziato non migliora la situazione. 

Mio padre indossa un giubbino leggero. È il 7, il giorno del suo compleanno. I raggi caldi del sole oltre la finestra portano un anticipo di primavera, ma non dentro lo studio. Lì non sembrano arrivare, o forse ho freddo soltanto perché ho paura. 

Non lo do a vedere. O almeno è quello che riferisce mio padre diverse ore dopo, a cena, quando rievoca il momento in cui l’ecografista ha sentenziato: «Cisti emorragica o endometriosica». Della serie: scegli tu quella che ti piace di più. Io ho scelto la prima, perché mi era sembrata più tragica. Invece, era la seconda. Ma questo l’abbiamo scoperto soltanto in seguito, quando dallo studio dell’ecografista siamo finiti direttamente in quello della ginecologa, perché è così che funziona con mio padre: disinteresse per mesi o mille visite tutte insieme nello stesso giorno. 

Fotografia scattata dall’autrice

Con una nuova ecografia e un nuovo freddo che mi provoca qualche spasmo di troppo, la dottoressa ha confermato la seconda opzione. L’estrema facilità con cui l’ha fatto, come se fosse la cosa più banale e naturale del mondo, come se – e di fatto era così – di casi come il mio ne avesse visti a bizzeffe, ha gettato mio padre nel panico.

«Ma è possibile? Deve operarsi? Può fare una cura? Cosa comporta?» 

Ho fatto per aprir bocca con l’intenzione di rispondere al posto della ginecologa, che mio padre aveva appena deciso di bersagliare con mille domande: Papà, non sto morendo. Invece ho stretto le labbra: non dovevo dirlo a voce. Avrei sminuito la sua preoccupazione, l’avrei rassicurato, mentre di colpo, nel vederlo sbiancare e temere per me come mai aveva fatto prima, mi sono resa conto di quanto non volevo che lui mi sapesse al sicuro. Volevo che avesse paura, che temesse di perdermi. Volevo che capisse una volta per tutte i malesseri taciuti per anni, che mi vedesse nelle mie fragilità e le riconoscesse ufficialmente grazie all’autorità della diagnosi, la stessa che lo rende ora fallibile e vulnerabile, un padre negligente. 

Ho lasciato così che la dottoressa gli spiegasse tutto, che sì, potevo essere operata, ma che dovevo fare altre visite più approfondite e poi probabilmente una cura che sarebbe potuta durare anche tutta la vita. Ho visto mio padre fare un paio di calcoli mentali e sbiancare. Piani stravolti. Partite sacrificate. Nessun farmaco con rimborso. Nuove preoccupazioni. Soltanto perché ho deciso di farmi venire anche quest’altra cosa qua. Ma questa cosa qua mi legittima ora a richiedere le attenzioni mai ricevute, me le fa pretendere con il potere di chi ha una malattia invalidante e lui, mio padre, soltanto un uomo che non ha mai capito e mai capirà cosa vuol dire avere un corpo da donna, me le deve.

«Guarda che regalo di compleanno mi hai fatto! Mi costerai un mutuo con tutte le visite e le medicine che ti servono!» Il tono, quando durante il viaggio di ritorno ha pronunciato l’ennesima frase buttata lì senza prima riflettere, era quello di sempre, ma per la prima volta in vita mia l’accusa non è riuscita a farmi sentire in colpa. Mi sono voltata e anche se lui non ha visto, concentrato com’era sulla strada, gli ho sorriso d’un sorriso da carnefice. Sì, papà, è proprio questo il mio regalo per te: farti sapere che esisto, che il mio corpo ribelle non funziona bene e che per la prima volta devi preoccuparti seriamente per me. Non posso essere ancora io a pagare per un corpo ribelle che non ho mai scelto di avere. 

Francesca Barracca

Francesca Barracca nasce in provincia di Caserta nel 1997. Laureata in Filologia Classica e diplomata con un Master in Scrittura Creativa dell’Accademia Molly Bloom, recensisce libri e collabora come contributor con la testata online classicult.it

Mali: francesca.barracca97@gmail.com

Instagram: @frabiblia


Lascia un commento