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CELESTE MIGRARE
Laura Chiapuzzi

Il mattino in cui sono venuti a prendermi pareva che la primavera, dopo aver fatto fiorire le viole, si fosse tirata da parte. Ricordi, mamma? Dalla radio in cucina arrivava la voce di Freddy: “…all we hear isradio ga ga…radio go go…” La cantavamo sempre insieme urlando a squarciagola e storpiando le parole in inglese, poi si è fatto tutto freddo e non ho più cantato. Adesso non so nemmeno se mi ascolti o se la tua mente è lontana ma io ho bisogno di ripercorrere quei momenti, mi serve per ritrovare una connessione, un motivo per essere qui. 

Mentre mi portavano via gocciolava il cielo, gocciolavano le viole sul davanzale e i tuoi occhi, mamma. Sarà solo per poco, vedrai, mi hai detto soffiandoti il naso. Avevo otto anni e forse ero troppo piccola, o forse troppo stolta per accorgermi del tuo tono dimesso e dell’assenza di convinzione nelle tue parole. Così ho guardato su, verso la grondaia. Le rondini si affaccendavano attorno al nido, lo riparavano per poterci abitare di nuovo. Sentivo ancora i loro garriti mentre la macchina si allontanava, doveva essere per forza come dicevi tu e sarei tornata in tempo per vedere nascere i rondinini.

Finalmente sono tornate le rondini, le ho viste arrivare dal terrazzo mentre facevo i compiti di scuola. Quanto mi sono mancate! Mi piace guardare le loro forme aggraziate mentre volano dal tetto ai giardini, fino agli orti qui vicino e poi di nuovo al tetto. Lavorano senza tregua per riparare il nido e preparare una culla accogliente per i rondinini. D’inverno, quando soffia la tramontana e piove forte contro la grondaia vado a controllare se il nido resiste, dovesse andare distrutto non tornerebbero più. La mamma mi dice di non aver paura, perché le rondini lo sanno che la loro casa è qui. Mi ha raccontato che in autunno, quando inizia a fare freddo, si radunano in massa sui fili della luce. È il segnale inconfondibile che è tempo di volare via, verso luoghi più caldi. Le migratrici, ha sussurrato guardando il cielo. Io vorrei sapere qualcosa in più sulle rondini ma lei è sempre presa da altre faccende. Glielo chiederò un’altra volta.

Se ci penso, sai, sento ancora quell’odore, un misto fra la similpelle dei sedili e il profumo della signora in tailleur. La macchina filava su strade che non conoscevo e io pensavo a te, in piedi sul terrazzo, immobile. Quando ci siamo fermati, mi sono accorta che avevamo cambiato città. Le finestre della nuova casa gocciolavano e gocciolava il naso del bambino sconosciuto. Dì ciao a Sofia, gli ha detto asciutta la signora che per un po’ sarebbe stata la mia mamma, ma lui è rimasto in silenzio e mi guardava come io quella volta avevo guardato le scimmie allo zoo. Te la ricordi la gita allo zoo? Le avevamo contate insieme, erano nove e saltavano da un angolo all’altro della gabbia gridando come pazze. Il mio grido invece si è fermato in gola, un bolo che non andava né su né giù. Il bambino sconosciuto è rimasto immobile anche quando una goccia uscita dalla narice gli è colata sul labbro finendo la sua corsa sul colletto della camicia. Non guardarmi così, avrei voluto dire mentre cercavo di cacciare giù il mio grido, invece ho preso il fazzoletto dalla tasca, tieni, asciugati, possiamo diventare amici. Hai capito, bambino, io non sono una scimmia, sono una rondine e questa casa dev’essere l’altro nido.

Si chiama Teo. Pensavo che fosse un diminutivo di Matteo invece il suo nome è Teodoro. La sua mamma, che per un po’ sarà anche la mia, mi ha comprato una bambola ed è brava a cucinare, però non profuma come la mamma vera. Vorrei tanto avere qui qualcosa di suo, magari uno di quei bei foulard colorati che le piace mettersi al collo, o anche solo un fazzoletto da annusare la sera prima di addormentarmi. Chissà cosa starà facendo e chissà se le rondini hanno finito di riparare il nido e hanno già deposto le uova. 

Questa sedia scricchiola ogni volta che mi muovo, scricchiola come le tue ossa, mamma. Qui è tutto in rovina e tu mi chiedi se ho innaffiato i fiori. Non ci sono più fiori, sono rimasti pochi steli rinsecchiti che si tendono come arti cui viene negata la vita. Neanche le tue braccia conoscono pace, lo capisco guardando quelle dita scheletriche che stropicciano il lenzuolo. Di quei fiori non ho conservato nemmeno il ricordo, non so più i loro colori, né i profumi. Non c’è più niente che testimoni la gioia di un tempo, si scorge appena il segno di un vecchio nido fra il muro di facciata e la grondaia. Nei miei ricordi c’è solo la pioggia che batteva sul davanzale e annacquava i tuoi occhi e quel senso di sgomento che amplificava via via che aumentava la distanza.

Ho imparato che le persone della nuova casa si chiamano famiglia affidataria. Io e Teodoro adesso giochiamo insieme, il pomeriggio dopo i compiti di scuola. Facciamo soprattutto giochi da maschio, tipo lanciare la palla in un canestro o far correre le macchinine sulla pista. Mi dicono che dovrei considerarlo un fratello ma io preferisco pensare a lui come a un compagno di giochi. La mamma mi manca da morire e mi mancano le rondini, ho guardato sotto i tetti delle case vicine ma qui non ce ne sono. Peccato. Nella nuova famiglia ho anche un papà ma non saprei cosa dire di lui perché io un papà non l’ho mai avuto. Venivano degli uomini in casa nostra ma credo che nessuno di loro lo fosse, anche se ce n’era uno che mi portava dei regalini e quando andava via mi salutava dicendomi “ciao principessa.” Era l’uomo dei mocassini. Arrivava sempre di lunedì con una cesta di tomaie da cucire e quando se ne andava si portava via quelle già finite.

Mi sconcerta l’atlante del tuo corpo, mamma. Sottile pelle d’uovo segnata da un tracciato di vene e capillari che sfumano dal blu al violetto. Ho paura che prima o poi si strappi come uno di quei tessuti che diventano lisi per la troppa usura. La tua testa ha scavato una conca sul cuscino, ogni volta che ti sostengo per darti da bere raccolgo qualche capello giallastro, sulla cute lucida non c’è più memoria della folta chioma di capelli rossi che avevi. Quando ti guardo non posso fare a meno di pensare a quante mani sono passate su di te, quanti altri corpi hanno cercato nel tuo quello che non trovavano altrove. In quanti ti hanno desiderata, pretesa, mercificata. Adesso ho imparato a prendermi cura di te e a toccarti senza farti male, ma prima ho dovuto imparare il perdono. Puoi perdonarmi, mi hai chiesto in uno dei tuoi rari momenti di lucidità. Non ho saputo rispondere. È forse perdono essere tornata qui a occuparmi dei tuoi bisogni, oppure a spingermi è stato solo il senso del dovere? Mi sono chiesta più volte cosa provo quando mi aggiro in questa casa da cui mi hanno strappata, se da qualche parte ci sono ancora le tracce dei momenti felici, l’eco delle risate, i giochi e le storie bizzarre che inventavi per me. In qualche modo riuscivano a compensare la frustrazione che mi assaliva quando chiudevi a chiave la porta della tua stanza. Io dovevo restare fuori e ingannare il tempo giocando mentre aspettavo che l’uomo di turno se ne andasse via. Dopo ti guardavo contare i soldi, mi sorridevi mentre li arrotolavi e li chiudevi insieme agli altri in un vaso di ceramica e poi andavi in bagno a sciacquarti, tanto io ero troppo piccola per capire. La consapevolezza è arrivata più tardi, quando mi sono resa conto che la tua colpa ha spazzato via l’infanzia e poco a poco è diventata anche la mia colpa. 

Oggi ho potuto rivedere la mamma, quella vera. Non è proprio come quando stavamo insieme perché non possiamo rimanere sole, c’è sempre la signora in tailleur che ci sorveglia. Il cane da guardia, la chiamiamo noi, però possiamo abbracciarci e allora sì che sento di nuovo quel profumo che mi è mancato tanto. Non le ho nemmeno chiesto perché mi hanno portato via, abbiamo così tante cose da dirci che me ne sono scordata. Prima di lasciarci mi ha dato un pacchettino, l’ho vista chiedere il permesso alla signora in tailleur e lei ha fatto un cenno con la testa, sì, puoi darglielo. Ci siamo abbracciate ancora ed è scappata via. Non vedevo l’ora di arrivare a casa per aprire il pacchetto. Dentro c’è un libro, l’ho annusato a lungo e mi sono messa a sfogliarlo. Il libro parla dei volatili che popolano il nostro territorio, mi piace perché le pagine sono piene di illustrazioni. Ho subito cercato la pagina dedicata alle rondini e in mezzo ci ho trovato un biglietto scritto a mano. Che sorpresa! La calligrafia è quella della mamma e dice: Tesoro mio, mi dispiace tanto per quello che è successo, un giorno ti spiegherò tutto. Ricordati che ti voglio bene e che sto facendo il possibile per riaverti con me, intanto tu fai la brava e comportati bene. Dimenticavo: sono nati i rondinini.

Respira. Prenditi la mia aria e i miei polmoni gonfi di solitudine. Potessi farlo, ti darei anche le ossa e se lo accetti, tutto il mio scheletro sgraziato, le spalle cadenti, la figura sgangherata. La schiena mi si è curvata poco a poco da quando ho smesso di guardare il cielo, è successo quando ho saputo che le rondini non sono più tornate. Insieme a tutto il resto ti rendo pure il cuore, me lo hanno spremuto fino a farlo seccare ma è tuo, se lo vuoi. Troverà posto nel tuo petto e adeguerà il suo battito alla stanchezza che ti opprime. Già che ci sei prenditi perfino il fegato, te lo cedo volentieri, non ne posso più di sentire la bile agitarsi e farsi tossica. Chissà se lo conosci il suo sapore amaro quando sale dallo stomaco alla gola, e chissà che sedimenti ha lasciato tutto quel veleno che ti hanno fatto ingoiare, povera mamma. Ti metto un po’ di musica, vuoi? Ma sì che metto Freddy, cosa vorresti ascoltare? Fai dei cerchi nell’aria con le mani, come a dire: non importa. Tanto lui è sempre qui, farfugli, lui è come me. L’hai ripetuto mille volte in queste ore che non passano mai. Lui è come me.

Oggi ho compiuto tredici anni. Pensavo di vedere la mamma invece sembra che non stia bene. Al telefono mi ha detto che ha un regalino per me ma devo avere pazienza, appena si sente meglio me lo darà. Chissà come mai è sempre ammalata. Intanto io ho tenuto il conto, da quando vivo nell’altra casa le rondini sono andate e tornate cinque volte. Teo ne ha quasi quattordici, di anni ma ne dimostra di più, mi sono accorta che gli è cambiata un po’ la voce e gli sta spuntando qualche pelo sulla faccia piena di brufoli. Però ha ancora paura del temporale come quando era piccolo e se capita di notte viene a infilarsi nel mio letto. È successo pure stanotte. Ad ogni fulmine la stanza si illumina a giorno e i tuoni fanno un fracasso da far tremare i vetri. Ho la sua pancia appoggiata alla schiena, dobbiamo stare vicini così per non cadere dal letto. È estate, fa caldo e noi due indossiamo solo canottiera e mutandine. Il fragore di un altro tuono ci fa sussultare e adesso non siamo più bambini. Sento premere sulla schiena il suo coso e nella mia testa qualcosa si agita. Sono solo ricordi confusi, c’è un raggio di luce che filtra dalle persiane, la pelle è nuda e lucida di sudore e i capelli rossi sono sparsi a raggiera, come un sole che arde sul ventre dell’uomo sdraiato. Poi il ricordo sfuma portato via dalla furia del tuono ma io adesso so cosa devo fare. 

Quella volta ti sei dimenticata di chiudere a chiave la porta, mamma. Si è aperta piano, solo uno spiraglio ma sufficiente per sbirciare dentro. La tua vestaglia era stesa sul pavimento e sopra c’erano i suoi pantaloni e le mutande. Ti vedevo solo di schiena, eri inginocchiata sul letto con le natiche alzate e la tua testa si muoveva con un ritmo lento fra le cosce dell’uomo dei mocassini. 

La pelle di Teo ha un sapore strano, sa di salmastro ma forse è colpa del bagnoschiuma. Mi è sembrato così naturale sciogliermi dal suo abbraccio, abbassargli le mutandine e prenderlo fra le labbra. Siamo entrambi sorpresi da quello che sta accadendo ma non mi tiro indietro, mi piace sentirlo ansimare e penso di fare bene, di essere brava come la mamma, invece… Il frastuono del temporale ha coperto il cigolio della porta ma l’urlo ha risuonato più forte. Lei ha acceso la luce e ci ha sorpresi così. Al suo sguardo atterrito, di colpo ho ricordato tutto. Dovevo avere anch’io la stessa faccia quando ho visto i due corpi nudi, l’imbarazzo dell’uomo dei mocassini e la vergogna sulla faccia della mamma, il suo sgomento e la certezza che da quel giorno niente sarebbe più stato come prima. 

Ho dovuto affidarti a mani competenti, io non sono più in grado di fare niente per te, posso solo pregare. Mi costringevano a farlo, ossessivamente, quando ero nella casa famiglia e alla fine è diventata un’abitudine. Lo consideravo un modo per espiare, lavavo così il peccato di cui mi sentivo macchiata. Adesso alle preghiere alterno il racconto di quei giorni lontani ma ormai tu non mi ascolti più. Dopo la notte del temporale, non sapevo come affrontare i genitori di Teo. Il mattino seguente avevo colto dei mezzi discorsi, li sentivo bisbigliare di là, parlavano di me, non mi volevano più. Che cosa ti aspettavi dalla figlia di una puttana? Ecco cos’ero, la figlia di una puttana, finalmente mi era tutto chiaro. Avrei dovuto sostenere il peso della tua colpa, come se portassi un sacco di pietre sulle spalle. Ho cambiato altre due volte famiglia ma mi sono sempre sentita un’ospite sgradita. Ero grande e disillusa, e ormai mi ero convinta che tu non avessi fatto niente, niente, per riportarmi da te. 

Nella casa famiglia non ho legato con nessuno degli ospiti. Mi sento addosso i loro occhi, ho sempre l’impressione che mi guardino strano, che mi scherniscano per il mio aspetto. Ho un fisico disarmonico, le gambe lunghe e magre, la schiena curva. I miei capelli sono ispidi e indisciplinati, ho sentito qualcuno bisbigliare che sembro una scopa di saggina. Col pretesto di studiare mi isolo dagli altri e quando non studio prego. Fra non molto sarò maggiorenne, prenderò il diploma e sarò libera di andarmene. Ma dove? Sarebbe bello tornare come le migratrici in primavera, se solo ci fosse ancora un nido ad aspettarmi. 

Ho saputo della tua malattia. Un nome breve e dall’apparenza innocua, quattro lettere a formare una sigla, l’ultimo regalo di qualcuno dei tuoi clienti. E mentre lei si accaniva su te, l’odio intossicava il mio sangue. Il nostro rapporto, già fiaccato da incontri sempre più radi, si era esaurito come quelle relazioni che si trascinano per anni senza più un senso. Ti ho cancellata, perché solo dimenticandoti potevo appagare il mio bisogno di redenzione. Poi un giorno sono venuti a cercarmi. Il tuo sistema immunitario non combatteva più, tu stessa rifiutavi le cure e te ne stavi inerme a guardare la vita fuggire, come quando in autunno guardavamo le rondini volare via. 

La quiete non ti appartiene, fai appello a un dio cui non hai mai creduto, che ti conceda dignità almeno in quest’ultimo passaggio. E non appartiene a me che mi trascino in questo estenuante migrare celeste, dove nessun nido è mai stato veramente mio. Ma stai tranquilla, mamma, ti porto sulle spalle insieme a tutto il resto, come facevi tu quand’ero piccola. Rammenti? Allacciavo le gambe già troppo lunghe dietro la tua schiena, tu mi stringevi le mani per tenermi al sicuro e poi iniziavi a barcollare ma invece di farmi cadere mi buttavi sul letto e mi facevi il solletico. Io stavo al gioco, e quante volte lo abbiamo ripetuto, quante volte! Mio dio… come fanno male certi ricordi, e come scricchiola ogni volta che mi muovo questa maledetta sedia su cui ti guardo morire.       
         

Fotografia dell’autrice

Ho fatto un sogno. Smontavo il tuo corpo e con una destrezza che non mi riconosco sostituivo uno alla volta i pezzi danneggiati con parti del mio corpo. Alla fine di me non è rimasto niente, solo un involucro informe e qualche frammento di materia. E allora piano piano mi sono insinuata fra le tue cosce e con cautela, come avrei fatto con la corolla di un fiore, ti ho aperto la pareti della vagina e ho percorso il breve tratto che mi separava dal tuo grembo. Era caldo e scivoloso e con un ultimo guizzo ho raggiunto l’utero. Mi sono annidata lì e finalmente ho provato una pace profonda. Non mi accadeva da un tempo infinito. Ero dentro di te, al sicuro e pregavo che tutto ricominciasse daccapo, che quel percorso inverso rappresentasse per noi una seconda possibilità. Poi, alcuni colpi di tosse violenti e ripetuti mi hanno strappata dal mio sogno. Eri tu, e stavi soffocando.

Laura Chiapuzzi

Laura Chiapuzzi, 1959, vive nel cuore della pianura lombarda ma le piacerebbe trasferirsi al mare. Si occupa della famiglia, di un cane e di quattro tartarughe. Nel tempo libero legge e fa giardinaggio. Scrive solo quando sono le storie a venirla a cercare. In passato ha pubblicato su typee, la piattaforma letteraria di Belleville. Recentemente sulla rivista Enne2 e su Narrandom.

Mail: lchiapuzzi@libero.it

Facebook: Laura Chiapuzzi

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