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QUELLO CHE IL MARE SI PRENDE, IL MARE RESTITUISCE
Giulia Rigoni
È il tramonto; all’apparenza è uno dei tanti, ma non sarà più come gli altri adesso che te ne sei andata, nonna.
Le sfumature pesca tingono l’orizzonte. Le onde si infrangono sulla sabbia fredda della sera, cancellano le impronte dei miei piedi e mi bagnano i risvolti dei jeans. Il mare, nero come i tuoi occhi, accoglie la discesa del sole: è lenta e rassicurante, come sempre; solo gli scogli in lontananza sembrano più minacciosi del solito.
Sono sola, qui sulla nostra spiaggia. Mi ci portavi da piccola e trascorrevamo mattinate intere, io e te, alla ricerca della conchiglia perfetta. Non l’abbiamo mai trovata. Prima non ce l’ho fatta a entrare in camera tua, nonna; a vederti sdraiata lì sul letto, vestita e truccata a festa. Non ce l’ho fatta a prenderti la mano grigia tra le mie, a sfiorarti con un bacio leggero, a dirti addio. Mi hai colto di sorpresa, consapevole di quanto io odi le sorprese, come tu le vigilie. Avresti dovuto avvisarmi invece di spegnerti nel sonno proprio la notte del tuo ottantacinquesimo compleanno. Avresti dovuto darmi il tempo di mettere a fuoco, capire, analizzare, tornare. E invece mi hai lasciato con una domanda che non avrà mai risposta e che continua ad affollarmi la mente.
L’acqua mi accoglie. Il suo rumore si frantuma insieme alle onde sulle mie caviglie. Ieri la voce ti è tremata mentre ti liberavi dal peso che ti sei portata dietro per settant’anni. Davanti a una tazza di tè – rigorosamente Darjeeling e rigorosamente in foglie – mi hai raccontato di questa ragazzina che aveva solo quindici anni quando fu costretta a sposare l’uomo che l’aveva stuprata, un generale della Seconda Guerra Mondiale molto più vecchio di lei. Ma lui era abituato a ottenere tutto ciò che desiderava, non gli importava quanti anni avessi. Man mano che ti sei addentrata nella storia, la voce si è fatta più bassa, è diventata calma come il mare che mi bagna le ginocchia, fino a che mi hai confidato il momento in cui sei stata violata con una precisione e una lucidità incredibili.
Sei partita dall’inizio e non hai tralasciato nemmeno un dettaglio, come facevi sempre quando ero piccola e giocavamo a inventarci le storie. Mi hai accompagnato in salotto e per la prima volta non hai fatto il segno della croce verso il crocefisso appeso all’ingresso. Sul tavolino di cristallo avevi già disposto le tazze e la teiera delle grandi occasioni. Ti ho guardata con aria interrogativa – era tanto tempo che non la tiravi fuori – ma tu mi hai invitato a sedermi accanto a te con un gesto incurante della mano. Non hai detto una parola mentre versavi il tè: sei rimasta in silenzio con la tazza fumante tra le mani, nella stessa posizione un po’ ingobbita del giorno in cui hai conosciuto lei. Te l’ho presentata come una amica qualunque e mi sono illusa che tu te la fossi bevuta con la stessa naturalezza con cui ieri hai sopito il primo sorso di tè e mi hai confessato il tuo segreto. Il crocefisso ti ha fatto da testimone dall’alto mentre mi raccontavi che il Generale ti aveva incrociata, per caso, la sera prima del tuo quindicesimo compleanno, poco lontano dal bordello dove era diretto, da bravo habitué. Il tuo sguardo di bambina dentro a un corpo di donna l’aveva colpito a tal punto da diventare un’ossessione, fino al martedì di primavera in cui era riuscito ad andare a segno, sicuro e arrogante come solo i soldati sanno essere.
Il tè ti ha arrossato le guance mentre vai avanti: il Generale che ti aspetta nell’atrio del tuo palazzo al ritorno da scuola, si assicura che tua sia sola e sale in ascensore dietro di te, bloccando con un colpo secco la maniglia del portoncino di metallo nero già quasi chiuso. Tu che gli sorridi, garbata, per chiedergli a che piano vada, e schiacci il tasto per avviare la salita. Lui che non ti dà modo di urlare, ribellarti o chiamare aiuto, ma ti penetra all’istante. Tu che quando l’ascensore si ferma e lui si sta ancora chiudendo la zip dei pantaloni, senti il calore del sangue scivolare lungo l’interno delle cosce. Lui che, senza spostarsi di un passo, ti sussurra all’orecchio di girare la manopola dorata e precederlo verso la porta di casa. Tu che rimani immobile, non riesci a respirare, e lui che allora fa da sé: ti strattona fuori dall’ascensore, preme il campanello che porta il tuo cognome e si presenta ai tuoi genitori con tanto di titolo militare. Tu che lasci sia lui, uno sconosciuto, a condurre la conversazione, e rimani in silenzio, ancora sotto shock e incapace di realizzare una realtà troppo grande e ingiusta, con gli occhi scuri puntati a terra e le guance bordeaux dalla vergogna. Mi è sembrato di esserci io su quell’ascensore al posto della te quindicenne ieri mentre parlavi.
Sei diventata la moglie del Generale poco più che bambina, e hai scelto di non ribellarti e di rimanere sua fino alla morte. Come ci sei riuscita, nonna? Come hai fatto a condannarti alla solitudine e a rimanere vedova per la gran parte della tua vita? Hai cresciuto la mamma, e poi me, da sola, senza lamentarti mai e senza chiedere niente a nessuno. Volevo domandartelo ieri, volevo dirti che mi dispiaceva per quella ragazza, che meritavi una vita migliore e che avrei voluto possedere anche solo la metà della tenacia che hai dimostrato tu; e invece ho avuto paura e, ancora una volta, ho lasciato che fosse lei a scegliere per me.
L’acqua mi avvolge le gambe, mi accarezza i fianchi, mi attira dentro di sé. I piedi proseguono sicuri, sebbene il resto del corpo tentenni. Anche l’ultimo raggio del giorno entra piano nella sera e io rimango immobile, come te in ascensore non riesco a respirare. Mi hai raccontato la tua storia poche ore prima di morire, intanto che alternavi un sorso di tè a un grano del rosario che ti portai io dalla gita scolastica a Roma l’anno del Grande Giubileo; mi ricordo ancora il tuo abbraccio entusiasta il giorno in cui te lo donai – lui, come il crocefisso che hai appeso sopra la porta di ingresso in modo che ogni ospite potesse essere purificato prima di entrare in casa tua. Da quel giorno, hai tenuto il rosario sempre con te; l’avevi stretto nella mano destra anche il pomeriggio che hai conosciuto lei.
Il mare si ingrossa e il suono delle onde che si gonfiano e si schiantano sul bagnasciuga si mischia allo strappo dell’imene che si lacera e alle tue grida soffocate. I miei occhi, neri come i tuoi, si smarginano tra le onde. Ieri me ne sono andata senza salutarti, e ho perso l’ultima occasione di dirti addio solo per paura che scoprissi il mio, di segreto. Mi sento ancora addosso lo sguardo di biasimo che il crocefisso mi ha lanciato quando sono uscita: me lo tengo stretto anche ora che si mischia al tuo. Non sono più così sicura che non mi avessi scoperta. Sapevi sempre tutto, tu. Quando ero piccola, ti bastava un’occhiata per capire di cosa avessi bisogno ancora prima che lo capissi io. Non so perché mi sono voluta illudere che in questo caso fosse diverso. Scusami, nonna, ti ho detto una bugia, e adesso è troppo tardi. Non sono la ragazza in gamba che pensavi tu. Se lo fossi stata, non mi sarei lasciata tentare, non mi sarei lasciata possedere, non mi sarei lasciata amare. Se solo fossi stata diversa – più forte, più normale – non avrei cercato con così tanta foga i suoi baci, la sua lingua, i suoi seni, le sue labbra. Se solo non avessi ceduto alla tentazione, non avessi accettato il primo invito a casa sua, non avessi goduto delle sue attenzioni, non ti avrei deluso, e tu saresti ancora fiera di me. Invece il desiderio persevera, mi si infila anche adesso tra le gambe e risale, si mischia all’acqua salata che mi accarezza le cosce, gli inguini, i fianchi, la pancia e non mi dà tregua. Il suo sapore mi assilla, mi disseta, mi sfinisce, fino a che le ginocchia cedono e vanno a colpire il fondale. Il mare mi sfiora il mento e il profilo tanto simile al tuo, come hanno fatto molte notti le sue dita delicate. L’acqua si infila tra le labbra e mi riempie la bocca. Ansimo, annaspo, mi contraggo: ne voglio di più, ancora di più, sempre di più.
Un’onda mi travolge: la testa cade all’indietro, i capelli si bagnano, la schiena si sdraia, le orecchie si tappano. Galleggio sull’acqua blu scuro come Cristo in croce e lascio che il mare mi porti con sé, ché tanto, quello che il mare si prende, il mare restituisce. Me l’hai insegnato tu; questo, come la fermezza del non scendere a compromessi. Io non sono come te però, non sono te. Ma non ti sarai sacrificata invano, vedrai. Dall’unico scorcio di cielo ancora chiaro si diffonde un fascio di luce, che mi avvolge e mi riscalda. Sono pronta: che sia fatta la Tua volontà.

Nata nel 1988 in provincia di Milano, Giulia Rigoni si accosta alla scrittura creativa dopo qualche anno da traduttrice in ambito medico. Lettrice seriale animata da una strana sorta di curiosità antropologica verso i meccanismi della psiche umana, crede fermamente nel potere terapeutico delle storie. Da qualche tempo sta lavorando a quello che, un giorno, vorrebbe si trasformasse nel suo romanzo d’esordio. Il suo primo racconto è stato da poco pubblicato sulla rivista Linoleum. Sa che andrà tutto bene ma nel frattempo continua a preoccuparsi, giusto per sicurezza.


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