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L’ULTIMA MANO DI POKER
Tabata Barbieri


Oggi sono furiosa e adesso vi scrivo perché.

Ieri mi sono svegliata per andare a lavoro.

Non era un giorno come gli altri. Era una mattina diversa: si, ero stanca, un po’ stropicciata dalla settimana lavorativa che se per molti era appena cominciata, la mia non è ancora finita, oltre al fatto che la mia fidata amica emicrania era in procinto di ricordarmi che ho una certa età e certe cose non le posso più fare.

Ma era una mattina che sapeva di qualcosa di particolare, che profumava.

Quindi mi alzo, mi lavo, mi vesto, salgo in macchina e vado a lavoro.

Due ore, poi sarei andata a fare una delle robe che faccio meglio: lottare per qualcosa in cui credo.

A questo giro l’oggetto è molto più onorevole della maggior parte delle volte

(forse tutte).

Lottare per la pace e la libertà.

Passano le mie due ore.

Mi muovo. Sotto la pioggia. M4 chiusa. Male. Mi dirigo verso l’M3, aperta. Bene. Aspetto un po’, prendo la metro e vado verso il punto di ritrovo. La pioggia continua. Arrivo, saluto un paio di persone, le poche che conosco, e mi infilo sotto gli ombrelli altrui per poter prendere il telefono in mano e leggere i messaggi preoccupanti dell’allerta meteo. Trenta minuti tra un ombrello e un altro, evitando accuratamente rotaie scivolose e pozzanghere, che a Milano sono meglio definibili come “piscinette sporche”.

Bene, si parte.

Camminiamo piano, diluvio universale e rallentiamo ancora, non si sa mai che qualcuna non si sia infradiciata.

Inizio a camminare più veloce perché ho freddo, penso alla pessima scelta di non aver seguito quei messaggi dell’allerta meteo che consigliavano di portare un ombrello.

Tardi.

Ci muoviamo un po’ di più, sento delle voci che si fanno più alte, piccoli cori che invocano la libertà, la pace e condannano la guerra, le armi, il genocidio. Mi avvicino.

Parte un canto partigiano. Mi illumino, canto felice aumentando il passo. Guidata da tutte queste voci, incrocio persone interessanti che oltre a farmi spazio sotto il loro ombrello, condividono storie, idee e pensieri che accostano atrocità a speranza, spesso interrotti da coretti e urla di incitamento.

Due bambini giocano in una pozzanghera, belli, felici, liberi, uguali nelle loro diverse origini.

Sarà il freddo, sarà la mia spiccata capacità nell’addentrarmi nelle masse, ma mi sono ritrovata in capo al corteo, dietro al primo striscione.

Da lì tutto è cambiato.

Mentre camminavamo, discorsi pieni di rabbia, tristezza e speranza uscivano dal camioncino davanti a me, che pareva quasi troppo piccolo per reggere il peso delle parole amplificate dalle casse nel suo bagagliaio. Un profumo di libertà inebria tutte quelle 10.000 persone che sotto la pioggia attraversano fiere Milano, che non è mai stata così bella.

Parole di resistenza e di lotta a un mondo anacronistico e sbagliato, costruito su fondamenta che nascondono una xenofobia malata, che pietrifica e uccide.

Quel profumo rendeva la speranza sempre più vivida, quasi tangibile.

Responsabili di rappresentare voci che adesso sono soffocate, urla silenziose che come in un film muto si possono solo immaginare.

Fortunate di poter ricordare la resistenza e i partigiani, non di viverli o di esserli.

Fronte comune contro un governo che al posto di farsi fautore dei diritti umani, costruisce castelli di carta con errori storici e politici imperdonabili.

Assaporare quel senso di giusto, guardarsi attorno e vedere persone che vogliono fare la differenza o comunque ci vogliono provare.

Quel profumo unico che noi possiamo sentire ogni giorno, ma la Palestina no.

Si arriva in piazza, il mio tempo stringe, il lavoro chiama.

Ubriaca di questa pienezza d’animo, mi dirigo verso la metro.

Scendo le scale e sento un clima diverso, da profumo a odore spiacevole, quasi puzza.

Cori contro la polizia, persone a fare da scudo alle uscite dalla stazione, insulti, cattiverie, urla.

Pareva l’ultima mano di un perdente a una partita di poker: se vinci, vinci tutto, se perdi, perdi tutto.

Arrivo a lavoro. Mi cambio, stanca, stropicciata, ma felice.

Vado dai miei colleghi a regalare parte della mia esperienza perche è troppo piena per non essere condivisa.

Un’ora dopo un video.

Stazione Centrale distrutta, transenne nei finestroni di una delle più spettacolari costruzioni di Milano. Manganelli, spintoni, persone a terra davanti agli scudi della celere che li guarda con indolenza.

Poi un altro video, poi un altro ancora e via dicendo.

Come se quattro ore di corteo, di discorsi, di frasi che contenevano parole forti come genocidio e pace, non fossero mai esistite.

A differenza dei manganelli, delle transenne, delle botte e delle cariche.

Quelle invece esistono.

Ma perche?

C’è chi dice che erano pagati, c’è chi dice che erano fascisti imbucati, c’è chi dice che erano dei comunisti andati solo per spaccare tutto.

So che questo verrà strumentalizzato, chi tirerà verso i manifestanti infami che hanno picchiato e istigato i poliziotti o viceversa i poliziotti che hanno manganellato a caso dei manifestanti per poi farli inginocchiare davanti a loro. C’è chi lo interpreterà sul giornale, chi lo sfrutterà al prossimo comizio, chi lo prenderà d’esempio per evitare la prossima manifestazione, chi lo userà per avvicinarsi o allontanarsi dalla questione palestinese.

Ok.

Ma perchè questo risuona e il resto no?

10.000 persone in piazza, che sotto la pioggia chiedono al proprio governo di rappresentarli, di fare quel passo verso i diritti umani e riconoscere e condannare un genocidio che è ancora in discussione, non hanno rilevanza?

Cioè, lottare per la pace e la libertà di un popolo che non ha neanche il diritto di autodeterminarsi, passa in secondo piano rispetto a un gruppo di persone che decidono di utilizzare un linguaggio incoerente rispetto alla manifestazione stessa?

Una manifestazione per la pace non può concludersi con una stupida guerriglia urbana.

Una manifestazione per la libertà non può concludersi a suon di insulti e manganellate.

Ma è successo, una manifestazione con temi così importanti può passare in secondo piano rispetto a un gruppo di vandali.

Spero di cuore che arrivino prima i messaggi di pace, di libertà, di autodeterminazione, di cambiamento e di speranza piuttosto che quel finale distruttivo, incoerente e operato da poche persone rispetto alla mole dei manifestanti.

È stato il corteo più faticoso ma più bello della mia vita, con un carico emotivo che neanche un papiro potrebbe contenere.

Ma al posto di essere felice, sono furiosa.

Palestina libera

Tabata Barbieri

Radici milanesi, romana d’adozione. Ha scelto la medicina ma non rinuncia all’attivismo e alla sua nota collezione di calzini ribelli. In fondo al cuore, il sogno di sentirsi libera su un palcoscenico. La riconosci tre le sue costellazioni di lentiggini, sotto una tempesta di ricci.

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