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L’ALTRA METÀ DEL RITRATTO
Giampiero Pancini
A casa di mia madre
la mia foto mi guarda
e non smette di domandare:
sei tu, ospite mio, me?
Mahmud Darwish
Entro e sono io, madre defunta, sono me. Mi guardo dalla cornice appoggiata al marmo del comodino e mi riconosco, impietrito sulla porta. E mi sorrido. Così mi scanso, evito lo sguardo immobile che mi fissa con intenzione e i denti perfetti che hai preteso che avessi. Nella foto io, tuo figlio, l’unico, nessun altro. Non sono sorpreso a ritrovarmi, in fondo è il mio posto lì sul comodino; ma a una condizione. Perché sì, mi amavi, certo che mi amavi, sì, sicuro, ma per potermi guardare intero e sfocare le crepe che non volevi vedere, mi hai messo di là, dal lato vuoto del letto, non dalla tua parte.
Sorrido un bel sorriso e ho le nostre montagne sullo sfondo, è estate e sono in vacanza. Il resto dell’anno vivo in una città di mare che tu non hai mai visto per non dar troppo umido alle ossa. Io, invece, al mare ho trovato lino che protegge dal caldo e lana a scaldare giunture; l’inverno frequento bettole nebbiose, dove gli uomini arrivano a toccarsi le braccia per darsi il buongiorno, anche la sera. Da un’isola alla terraferma il mare è reale, è cosa, è pianura e vallata, è distanziamento. Nella foto sorrido da solo, manca qualcuno di fianco, tagliato via. Se guardo meglio, trovo negli occhi sorpresa e rancore, immaginandoti all’opera con forbici o taglierino: già in posa ti chiedo chi sei, perché fai così?
Sei tu, ospite mio, me?
Alla casa del commiato guardavo tra i ceri un ghigno restatoti in faccia: soddisfatta, morta troppo giovane e per questo compianta. Sembravo intuirlo solo io. Le parole degli altri, un copione appiccicoso, bugie pietose, accuse nascoste di chi sa: l’hai un po’ uccisa tu, figliolo, ma come hai potuto? Ho stretto mani e risposto che no, no, la casa non l’avrei tenuta: ma come, figliolo? No.
L’ho svuotata da solo la casa, non volevo sottrarmi, e sentito il disprezzo attraverso una mancanza, una lingua segreta che a un tratto hai smesso di parlare, un codice alpha_qualcosa creato alla nascita, poi sussurrato a testa voltata, senza guardarmi: cerco un odore, il mio, sparito tra le cose scovate che infilerò giù nel bidone. Aspiro ed espiro veloce, caso mai risvegliasse l’olfatto, ma qui io non ci sono. No no, spazzato via, lavato da ogni mattonella, da tutti i tessuti già dieci anni fa.
Le statuine suonano se smuovo il sacchetto di plastica, l’angioletto in porcellana azzurra finisce con le altre. Dalla foto mi guardo e mi regalo un sospiro di gratitudine.
Successe in montagna: apristi la porta, trovandoci nudi, aggrappati, pieni, un insieme nitido e perfetto. Dello scoprirmi a scopare non facesti parola, ma da lì, offesa ed emarginata, interrompesti la lingua segreta e a casa la porta restò aperta per non trattenermi. Ti dissi che entravano i ladri o un gatto, e che a rendermi infedele era l’amore. Dicesti che di sicuro era lezzo di fogna e in una casa pulita, sul mio bel viso, non si poteva accettare che restasse nascosto. Doveva essere scoperchiato.
Fuori, dovevo andare.
Fuori, la porta era aperta.
Fuori, lontano da te.
Fu!
O!
Ri!
Che attraversassi il mare.
Dal cassetto sotto al piano di marmo estraggo un rosario, mille grani per mille preghiere e altrettanti sospiri. Tutti per me, a volte scagliati come pietre. Sorride perfetto il tuo unico figlio sbagliato, transitato da ogni dentista perché fossi bellissimo senza i denti storti di mio padre. E giù ferri e controlli e altri ferri, riuniti odontoiatrici al posto di giostre al luna park. Senza discutere. E nonostante le migliori intenzioni di dispiacerti, del sorriso salvato dentro la cornice ti sarai consolata. Ignoravi l’altra metà del ritratto pur sapendola viva, come un vicino fastidioso di notte, del quale non parli per vergogna a descriverne i rumori, ma finisci per salutarlo se passa, e la conversazione è lasciata cadere così in fretta da fare frastuono.
Mi fermo e accendo le luci, la notte calata senza avvertire fa brillare la lampada con un colore colloso. Sono stanco, ti ho sepolta e ho spostato ogni mobile, ho staccato i quadri e livellato mattonelle ballerine, ma di me nessuna traccia. Anche nelle pieghe del divano hai imbottito i miei avvallamenti. Io speravo, caparbio, di essere rimasto a riempire il posto delle telefonate che non ci facevamo sei giorni la settimana, delle visite negate trecentosessantacinque volte all’anno. Il codice alpha_qualcosa, tra me e te, disperso.
Me ne andai, lo feci, lo feci credendomi in salvo, ripresi una casa, il lino e la lana, e nuove strade ci misero tempo a diventar familiari. All’inizio avevo sogni che non duravano, poi d’estate presi a tornare sulla stessa montagna, a percorrerne il ciglio, in bilico, sarebbe bastato scivolare per finire da te. Vicini, così vicini con l’intenzione di mancarci, abbiamo ruotato, opposti, ancorati allo stesso fulcro. Tornavo alla mia isola ogni volta irritato, ché per incontrarti non avevo insistito, non mi avevi cercato, che il fato…
Il me nella foto dice che giocavamo carte truccate, che era un bluff, mamma, attraverso di noi il mondo ha saputo che un addio prevede il per sempre, e quando vede che ho capito, ride e si gira verso chi hai tagliato.
Vanno nel sacchetto anche i santini legati con un elastico, un cartoncino per ogni peccato, li ho commessi tutti. Erano nel cassetto a spingere su guarigione passando per il marmo, fino alla foto, fino a me.
Con la schiena appoggiata ai materassi arrotolati, il culo affonda nella vecchia rete intrecciata. Da fuori il rumore di poche auto che scivolano rapide.
Ho finito in questa casa, domani porteranno via tutto. Via, via, via. Non prenderò neppure la foto monca di dieci anni fa. La infilo tra le pieghe del materasso di lana, un ultimo sguardo tra noi e Sorriso capisce che deve restare. Penso che terrò solo la scatola di legno in cui serbavi lettere e conti: posso nasconderla tra le mie cose. Starà lì, mamma, a farti ricordare senza diventare invadente. Il freddo entra dalla finestra e sa di pulito, di sistemato, di non perdonato. È finita. Sono finite l’assenza e l’evitarsi e provo un sollievo osceno. Con un allungo del braccio afferro la scatola: ha l’intarsio raffinato di legni colorati, un disegno fin troppo moderno tra le statuine di porcellana. Tolgo un filo di polvere dagli angoli e sorrido con uno sbuffo mentre la apro. È vuota o quasi, solo un sacchetto di raso ingiallito, il rimasuglio di una bomboniera. Se scuoto, rumore di chicchi di riso. Lo slego e trovo tutti i minuscoli denti caduti. Il mio primo sorriso sghembo è restato. Una traccia di me non si è allontanata da qui.
Sei tu, ospite mio, me?
Sono io, sono me.

Nato ad Arezzo prima della rivoluzione sessuale, trasferito a Roma, poi a Torino, poi ancora ad Arezzo, forse ho trovato la stabilità venendo a vivere a Milano, di cui ho scoperto la bellezza sollevando gli occhi da terra. Da tutta la vita precedente passata sugli aerei non mi trascino dietro né un cane né un gatto, nessuna macchina per impastare il pane, ma tutti i libri da cui non mi separo. Ogni volta che vedo il dorso dei romanzi dei Grandi mi metto a scrivere per ridimensionare l’ego. E se non piove cammino, convinto che così mi vengano più idee. Il Campari Spritz e la marmellata di arance sono i miei talloni d’Achille.
Ho frequentato la scuola annuale di scrittura Belleville e, nella stessa scuola, il corso Scrivere di Notte tenuto da Gaia Manzini.
I TypeeBook 2021 e 2022 hanno incluso miei racconti, così come Enne2 e-Rivista, Narrandom, Spaghetti Writers, Wertheimer, Scomoda e Topsy Kretts.
Mail: pallincat@gmail.com
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