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CLARICE
Gennaro Guarinello

La sveglia sul comodino suonò alle otto come tutte le mattine, tranne la domenica, che era impostata alle otto e venticinque. Clarice si tolse la mascherina color argento dagli occhi, afferrò un bicchiere colmo d’acqua e ingerì la pillola per stabilizzare la tiroide. La casa era silenziosa, ordinata al punto da sembrare in attesa di ospiti. 

Le manopole, i piedi della vasca e l’appendi accappatoio luccicavano di uno scintillante color rame. La vestaglia di tessuto blu, con le sue iniziali ricamate, era appesa all’attaccapanni. 

Strinse la moka. La tavola prese forma come un’equazione: la tazza, le posate e il piattino in legno destinato al croissant. Tratteneva il respiro. Ruotò il cucchiaino di pochi gradi. Poi ancora, finché la sua curva non rispecchiò quella della tazza. Quando tutto fu allineato, si sentì meglio. Sembrava un tavolo da colazione in un hotel di lusso. Sorrise, consapevole di sé stessa.

Quel giorno compiva sessantasei anni, anche se nessuno sembrava ricordarselo. Nessuna telefonata. Nessun messaggio. 

Nessuno alla porta. Prese il cornetto, lo spezzò in due parti e intinse un pezzo nella tazza avorio. Le tornò in mente quella volta in una villa di Antibes, quando la parola “futuro” non destava orrore e malinconia. Il ricordo arrivò nitido e brutale. Lo scacciò con un gesto infastidito e si toccò la tempia. 

«Vecchia stronza», digrignò, spruzzando cannella sull’ultimo sorso, «buon compleanno».

Finì il caffè e si alzò senza alcuna fretta. 

Davanti allo specchio della sua postazione per il trucco, applicò mascara e un velo di cipria. «A volte ti parlo, come si fa con i morti», nel vetro le sembrò di scorgere l’ex marito per un secondo, «anche se sei talmente in forma che ti scopi le ventenni». 

Ci rise sopra: una risata secca, subito inghiottita dal vuoto. 

Zurbaran le leccava il mignolo, un piccolo rituale proibito.

Lo fissò: «sei serio? Tutti i cani normali abbaiano, tu invece ti ecciti per un dito». 

Indossò una camicia a fiori azzurra e un paio di jeans. 

Aprì la finestra: aria fresca e l’odore di erba appena tagliata. Poi scese in strada, sfilando per il quartiere dove è sempre domenica, anche quando è martedì.

Il cane continuava a tirare, a fermarsi: sembrava non voler proseguire. Clarice gli stava dietro, il ginocchio destro che le faceva male a ogni strappo del guinzaglio. 

«Se casco, io finisco al pronto soccorso, tu in un canile», disse con voce decisa, tirando la pettorina verso di sé. 

Il cane si fermò davanti a uno stivale bagnato, annusando con serietà di segugio. Poi, con un ultimo flebile schizzo, centrò l’interno della scarpa. 

«Ora abbiamo finito, vero Zur? Ringrazia che sei così carino, altrimenti avrei già trovato su qualche gruppo Facebook a chi affibbiarti».

Entrò nel bar e lasciò il cane libero tra i tavoli: non c’era bisogno di chiedere, lì sapevano già che non avrebbe dato fastidio. 

Aldo alzò appena lo sguardo dal giornale. La presenza di Clarice era una piccola gioia quotidiana: bastava per farsi notare, senza distoglierlo dalla lettura.

«Ti sei svegliata tardi stamattina?». 

Clarice picchiettò le unghie color azzurro ceruleo sul bancone, lanciando il guinzaglio a terra con l’aria di chi non ha voglia di conversare.

«Il cane ha deciso che camminare è sopravvalutato», replicò, piatta, senza aspettarsi repliche. 

«Il solito?» chiese Aldo, dopo aver piegato il giornale. 

Annuì. 

Il barista prese un bicchiere, mise lo zucchero e un filo di caffè. Mescolò finché non divenne scuro e denso. Aggiunse il latte e, alla fine, spolverò il cacao.

«Al mio diabete!» esclamò Clarice, e portò la tazza alle labbra.

Sollevò gli occhi, dove Aldo conservava il vino. «Mi dai una di quelle?» chiese, indicando una bottiglia di barolo. 

«Certo, cosa festeggiamo?» disse Aldo, accennando un sorriso.  «Nulla di importante, questa sera viene a cena da me Paola».

«Mi sbaglio ma non la vedi da…».

«Sì», tagliò corto. 

Scese dallo sgabello e lasciò i soldi sul bancone. Il cane dormiva sotto un tavolo vuoto; gli diede un colpetto con la punta del piede e si avviarono fuori. La strada verso casa era breve, fece una deviazione in lavanderia per ritirare degli abiti.

Appena entrata nella sua abitazione, posò sul letto un vestito rosso e prese da un piccolo vassoio gli orecchini da abbinare. Squillò il cellulare, un messaggio della figlia: annullava il loro pranzo. Clarice lo lesse ad alta voce, facendolo ascoltare a Zurbaran. «Meglio così, ce n’è più per me», disse, guardando la bottiglia poggiata sul tavolo. Aveva ancora il telefono tra le mani. Sembrava colpa sua.

Si struccò con la stessa cura con cui si era truccata qualche ora prima. Entrò nella vasca calda. Aveva delle patch all’ananas applicati sul contorno occhi e un calice di vino tra le dita. Lo sorseggiò senza fretta. 

Restò nella vasca finché la luce non cambiò colore. Poi il campanello la fece sobbalzare.

Sullo zerbino c’era una scatola con il suo nome scritto a mano. Si guardò intorno per un attimo prima di raccoglierla; il cartone era leggero sotto le dita. All’interno trovò un foulard delicato, beige, con sottili linee rosse appena percettibili. Le sembrava di averlo già visto, anche se non ricordava quando. Il telefono suonò di nuovo. Un messaggio vocale: «stasera alle diciannove da Aldo. Il foulard ci sta bene con il tuo vestito rosso», disse la voce. 

Lei restò ferma, con il foulard tra le mani. Lo accarezzò: le sembrava suo da sempre. Il dubbio durò un battito di ciglia. Scelse di sorridere. 

Lasciò il foulard cadere sul letto, accese la radio e si imbatté in Crocodile Rock nel bel mezzo del ritornello. Zurbaran le saltò addosso e lei, senza pensarci troppo, mosse i piedi sul pavimento freddo del bagno. Il cane si stancò subito; si rotolò sul tappeto e rimase a guardarla.

Si fermò davanti al lavabo. Sul letto, alle sue spalle, giaceva il vestito rosso. Prese il rossetto color rosa selvatica e lo rigirò tra le dita. Sentì il freddo del metallo contro la pelle: odorava di burro di cacao e iris.

Il telefono sul comodino restava muto. Sorrise: un sorriso storto, quasi una smorfia. 

«Tanto non ho di meglio da fare», disse, e lo avvicinò alle labbra.

Zurbaran sonnecchiava sul tappeto, la testa di lato. Clarice gli fece un cenno. 

«Sei pronto?»

Il clic del rossetto risuonò come un contrappunto musicale, proprio mentre la radio cambiava brano.

Gennaro Guarinello

Ha iniziato a scrivere quando ha capito di avere qualcosa da raccontare. Ha diretto cortometraggi, pubblicato racconti su riviste online e fondato un collettivo di fumettisti, sempre mosso dalla curiosità di esplorare nuove storie.

Instagram: @gennaro.guarinello

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