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A PRESTO, LUDOVICA
Nicola Ianuale
Ti vedo, Ludovica. Cammini a passo svelto senza accorgerti di me. Trentotto anni: impegnata, ma infelice. Sfili davanti a una vetrina e ti soffermi sul riflesso. Oggi sei finta, di un’allegria che non ti appartiene. Orecchini pendenti, jeans largo a contenere i chili di troppo, la camicetta un po’ scollata e quel primo bottone aperto. Ti senti bella? Ombretto, mascara e matita per la lucentezza dei tuoi occhi tristi, fard e fondotinta a ravvivare il colorito biancastro, il correttore per gli effetti delle lunghe notti insonni. Ti conosco, Ludovica, è il solito trucco, abbondante, per contrastare quel solco sul viso che smaschera le tue fragilità.
Sono dietro di te. Ammiro a distanza lo squallore della tua esistenza. Ti amo per ciò che sei: un magnifico fallimento. Procedi spedita verso i palazzoni grigi all’orizzonte. Passa una coppietta complice. L’invidia ti fa girare; urti una giovane madre con in braccio il suo bimbo. La borsa scivola dalle dita e si infrange sul marciapiede.
«Mi scusi. Ero distratta», ti chini a recuperare la roba fuoriuscita. Fazzoletti, chiavi e quel dannato flacone di pillole.
«Non si preoccupi», risponde la madre; nel frattempo dondola il figlio che ti osserva incuriosito. Gli rivolgi un sorriso dolceamaro. «Samuel, fai ciao alla signora», dice.
«Signorina», la correggi con l’imbarazzo della vergogna, per rimarcare a te stessa ciò che non sei e, forse, non sarai.
Povera Ludovica. Gridi aiuto e nessuno sente. Nella tua vita non c’è grazia né gentilezza ricevuta. Hai nello stomaco tanti cadaveri, farfalle morte sotto i colpi del reflusso.
Saluti e vai avanti; una lacrima color mascara ti cola lungo il viso. Piangi pure, Ludovica.
Lo so lui cosa dice: «Devi prima dimagrire».
Qualcuno darebbe la colpa a me che ti seguo, che ti osservo. Invece, è colpa sua. Quante volte hai provato a farglielo capire? Tipo ieri sera fuori al ristorante. Sì, c’ero anch’io. Ci sono sempre.
«Ti sei mai chiesto perché mi sfogo sul cibo? Ti do un indizio: c’entra col modo in cui mi tratti!» gli hai urlato contro, in un insolito moto d’orgoglio, dopo le frecciatine perché volevi il dolce.
Lì non mi sei piaciuta, Ludovica. Ti preferisco succube e passiva.
«Tutte scuse. Impara a controllarti!» la sua risposta secca.
«Lo vedi? Non te ne frega un cazzo!»
«Fai sempre così», e ti ha guardato con disprezzo, anche un po’ schifato.
«Hai detto che mi ami a singhiozzo. Ti rendi conto?»
E lui, occhi al cielo, braccia conserte: «Dovrei amarti quando ti ingozzi senza ritegno? Quando piangi in continuazione? Quando non hai voglia di fare niente?».
Ora c’è un grande palazzo davanti a noi. Andiamo. Nessuno farà caso a me. Passare inosservato è semplice, basta nascondersi dietro un sorriso. Terzo piano: risorse umane. La segretaria ti accoglie in questo ufficetto asettico e incolore: macchinetta del caffè, boccione dell’acqua, musica soft in sottofondo. È l’ora del colloquio. Entri e mi appiattisco sull’uscio, in disparte. Origlierò per starti accanto.
Due uomini sulla cinquantina, entrambi eleganti e brizzolati, sbirciano la scollatura. Accanto a loro, una donna in tailleur di Prada e tacco Armani – mento alto, gambe incrociate alla Sharon Stone – ti introduce alla posizione: data entry in ambito telefonico, nove euro netti all’ora, otto ore al giorno per cinque giorni dal lunedì al venerdì e contratto a tempo indeterminato entro due mesi dall’assunzione. Un bel passo avanti per te che, dieci anni fa, hai rinunciato ad amici, parenti e ambizioni per darti al precariato dei call center, per trasferirti lontano e convivere con uno stronzo.
La donna si consulta con i colleghi. «Il suo curriculum fa al caso nostro», riconosce nell’apatia del distacco professionale.
La ringrazi sollevata, illudendoti che un lavoro stabile possa ravvivare un’esistenza incolore come la tua.
«Lei è fidanzata? Ha intenzione di sposarsi? Vorrebbe figli?» chiede col tono di chi si aspetta solo una risposta.
Sì, sei fidanzata. Sì, vorresti sposarti e avere figli.
«Che c’entra col lavoro?» ribatti a fine inquisizione, passiva e succube, sulla difensiva.
«Vede, per una questione di armonia e continuità del team – spiega la donna, decisa e per nulla a disagio, a differenza tua, che con le unghie strappi via le pellicine – un’eventuale maternità complicherebbe la situazione. Qualora le dessimo il lavoro, e questo glielo dico fin da subito, affinché la nostra politica aziendale sia sempre trasparente, dovrà firmare un foglio in cui accetta di licenziarsi volontariamente se dovesse restare incinta.»
Dov’è, ora, quell’ignobile teatrino delle apparenze? Annuisci e fingi di accettare la postilla. Una stretta di mano, qualche sorriso di circostanza e sei fuori.
Adesso scappi. Chiedi alla segretaria dov’è il bagno. Vengo con te. Mi vedi? Sono qui, riflesso nello specchio dove piangi disperata. Ti abbottoni con vergogna la camicetta. Suona il telefono: è lui. Non s’informa, non capisce.
Va dritto al sodo: «Dato che sei in giro a perdere tempo, ho chiesto a mia madre di prepararci da mangiare. Fatti trovare a casa fra un’oretta. La pasta al forno è mia. Non la toccare e riscaldala per quando finisco il turno in magazzino. Per te c’è l’insalata».
Poi un “ciao” distratto e il “tu tu tu” della chiamata interrotta. Vuoi accasciarti a terra? Fa’ pure. Ora ti abbraccio e ti consolo. Non hai che me. Io ti apprezzo così come sei. Adoro anche quello che stai facendo.
«Pronto? Avete visto Ludovica?» singhiozzi laconica al telefono. «Ludovica non c’è più. Ludovica è morta.»
Nella borsa c’è un Mars. Da brava, prendilo. Due morsi e sei di nuovo te stessa. Ma sì, conta i passi che ti separano dalla finestra; immagina, se vuoi, cosa si proverebbe a volare giù. La sagoma allo specchio ti fa schifo. A me, no. Più ti osservo, più incupisci.
Sfogati, Ludovica. Sfogati. Però, no! Posa quel flacone! Il Prozac ti fa male; il Prozac ci allontana. Va bene, come vuoi, prendi la pillola. Indietreggio lentamente. Per ora ti lascio stare. Mi trovi sempre qui, nell’ombra, a debita distanza. Tornerò, come faccio sempre. In fondo, hai solo me. A presto, Ludovica.

Sognatore ed eterno Peter Pan dal 1995, le sue grandi passioni sono la letteratura, il cinema e la storia. Ha un Master in Editoria (con Treccani accademia) e frequenta “La scuola del Tascabile”. Suoi racconti sono apparsi su “Linoleum”, “Scomoda rivista” e “Spaghetti Writers”. Da settembre 2025 è redattore per “Metamorphosis rivista”. Si definisce: malato di curiositas.
Instagram: @nicolaianuale3 @lo_scrittore_solitario_
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