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LA PIZZERIA
Silvia Lenzini
La pizzeria Quando è tardi non esiste più e davvero non credo sia un caso né un male. Ci sono andata una volta sola in tutta la vita, sarà stato verso la metà degli anni Ottanta. Una sera d’inverno fredda e umida, una di quelle con l’aria affilata che non vedi l’ora di lasciarti dietro le spalle. Il locale era in centro, vicino a un vecchio cinema. L’insegna al neon, una squallida scritta in corsivo con doppia linea rossa e azzurra e un ricciolo alla fine, scimmiottava le peggiori insegne dei motel americani. Varcammo la soglia, che non era un vero confine: all’interno, la luce non era molto più forte che fuori e nemmeno faceva caldo.
Ci sedemmo in fondo al locale – un tavolino di formica uguale agli altri, già apparecchiato con dei fogliacci di carta gialla. La stoffa morbida del mio vestito scivolava sulla sedia verde, dura, trasmettendomi una instabilità da onda lunga.
Perché mio padre avesse scelto proprio quel posto resta un mistero. Forse aveva deciso di prenotare quando era davvero troppo tardi, e quella era l’unica pizzeria che avesse posti liberi in tutta la città. O nel resto del mondo.
Una patina opaca ricopriva il pavimento, con l’eccezione di una zona perimetrale, una striscia che correva lungo le pareti: lì, dove si intravedevano i colori originali delle vecchie mattonelle di graniglia grossa – verdi, bianchi e grigi – sistemai la chitarra che mio padre mi aveva chiesto di portare.
Non viveva più in casa da alcuni anni: se n’era andato col naso immerso nella traccia odorosa di una donna. Aveva seguito il profumo dell’amore, diceva lui, dimostrando l’origine genetica della mia propensione per le figure retoriche. Il profumo di una puttana – pensavo io ogni volta, ripiegata su me stessa come un pangolino.
Cenavamo fuori insieme ogni tanto, e una volta alla settimana ci trovavamo per un aperitivo: tanto era rimasto del nostro stare insieme.
La pizza non era cattiva, ma si capiva che sarebbe stata difficile da digerire. Sapeva di olio fritto e rifritto centinaia di volte, lo stesso odore che impregnava tutto il locale. Ci voleva molta birra per mandarla giù.
Gli altri clienti sembravano usciti da un ospizio, o da un manicomio, non saprei dire. Erano cinque o sei, ognuno da solo al proprio tavolino. Nel mio ricordo non ci sono colori: dovevano essere tutti vestiti di grigio o di nero. Come ho detto, il locale non era molto illuminato: nella luce scarsa dei neon abusati, quelle figure solitarie si muovevano con lentezza da fotogramma. Era come scorrere tra le dita una striscia di vecchi negativi, fissare controluce le immagini – una mano ossuta che sostiene la fronte, un braccio sollevato a chiamare il cameriere, una bocca aperta su un volto non sbarbato, fessura nera priva di denti. Sarebbe stato anche bello, se fosse stato un film; qualcosa come il cinema poetico di Pasolini.

Dopo la pizza ordinammo il caffè. Arrivò freddo, e ci sono poche cose che detesto più di un caffè freddo. Se non altro mi permetteva di accendere una sigaretta. Avevo diciassette anni e fumavo più di adesso. Avrei fumato volentieri anche prima della cena, o durante, tra un morso di pizza e l’altro.
“Suona una canzone per me”.
Il tono di mio padre mi commosse, mi raggiunse liscio e caldo come una carezza.
Ero disposta a qualsiasi cosa pur di dilatare il tempo, persino a suonare in pubblico. Tanto, sapevo che mi sarei esibita solo per lui. Estrassi la chitarra dal fodero, la sistemai sulla gamba sinistra, controllai l’accordatura e accennai qualche arpeggio.
Accesi un’altra sigaretta, le mani non erano ferme.
“Suona Il cielo in una stanza, per favore”.
L’aveva detto senza sollevare lo sguardo dalla tovaglia, con il pudore di una richiesta troppo ardita.
E io suonai. E cantai. Partii piano, poi iniziò a piacermi quello che sentivo, il modo in cui la mia voce invadeva l’aria: quel luogo in cui tutto era stantio e niente sembrava funzionare, aveva l’acustica di un anfiteatro.
I polpastrelli della mia mano sinistra premevano le corde con forza: nessuna sbavatura, nessuna vibrazione sporcava la limpidezza del suono, il canto maturava nella mia gola prima di uscire. Sicuro, armonioso.
Quando sei qui con me
questa stanza non ha più pareti
ma alberi
I vecchi intorno, immobilizzati nell’ascolto – bocche aperte e occhi chiusi – non erano veri. Veri eravamo solo io e mio padre, e la canzone che mi aveva pregato di cantare. Capivo bene la sua richiesta, il modo obliquo con cui mi diceva che gli mancavo ogni giorno e, insieme, la felicità di trovarsi lì con me.
Suonare nel miglior modo possibile fu la mia risposta.
Quando tu sei vicino a me
questo soffitto viola no, non esiste più
Cantavo bene, per dirgli Anch’io. Anch’io, babbo, uguale a te.
Aveva gli occhi lucidi. Anche i miei erano umidi, e li piantai nei suoi, verde contro verde.
Per te e per me,
nel ciel.

Restammo zitti, forse per un paio di minuti. A me andava bene così, tempo per assaporare un’emozione nostra, che non aveva bisogno di parole. Non avrei voluto proprio sentirne di parole, e invece.
“Grazie per averla suonata. Ora sei grande, lo so che puoi capire”, disse, la voce roca. “Questa era la canzone mia e di Antonella. Stare con lei era proprio così: il mondo reale spariva, esisteva solo lei e non m’importava di nessun altro. Grazie, davvero. Quanto mi piacerebbe che tu la cantassi di nuovo”.
Il fumo della sigaretta saliva oltre i neon sfocati, verso il soffitto annerito.
I vecchi si alzarono per andare via.
Era tardi, riposi la chitarra nel fodero.

Pisana per nascita, biologa per caso, cucina legge e scrive in ordine sparso. Ha pubblicato tre volumi di genere non letterario per i tipi di ETS ed. Molti suoi racconti sono reperibili su Riviste on line o cartacee (Crack, Sulla quarta corda, Enne2, Narrandom, Neutopia, Metatron). Alcuni sono stati premiati o menzionati nell’ambito di concorsi letterari.
Incoerente ed emotiva, ritiene che non abbia senso una scrittura che non sia specchio del disagio diffuso.
Mail: lenzini@sirius.pisa.it
Facebook: Silvia Lenzini


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