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RAVENSBRÜCK, LE CENERI DEL LAGO 
Leonardo D’Isanto

«Ricordo che d’un tratto mi ritrovai a guardare mia madre nuda».

Amanda ha lo sguardo rivolto a terra, si sfiora i polpastrelli delle mani come a tentare di tessere la tela di nuovi pensieri. 

«Povera mamma, si vergognava. Io e mia sorella non sapevamo come aiutarla».

«I telespettatori tengano bene a mente che all’epoca il concetto di nudo non esisteva» interviene il presentatore senza distogliere gli occhi da lei.

«Avevo diciassette anni ed ero nuda davanti a uomini e donne che non conoscevo».

«Questo appena arrivate a Ravensbrück?»

Amanda annuisce con il capo abbassato. Le luci riflettono lo chignon di un argento brunito.

«Prima ci rasavano il pube e i capelli. Poi ci addossavamo le une alle altre per vincere il freddo e la vergogna».

In studio regna il silenzio, i fari circoscrivono la scena all’interno di una bolla luminosa: Amanda, sulla schiena ricurva, contempla la punta dei suoi piedi immobili.

«La sveglia alle quattro del mattino, l’appello di due ore fuori al gelo. Sono cose che non si dimenticano».

«Poi ha iniziato a lavorare».

«I ritmi del campo erano insostenibili. Dovevo trovarmi un posto buono, e la Siemens lo era».

«Nel campo c’era la Siemens?» chiede il presentatore, sistemandosi gli occhiali con un dito.

«I posti più ambiti erano la Siemens e la Texled. Io superai i test alla Siemens: dita sottili, mani ferme e vista buona. Quaranta scellini per lavorare ai rocchetti col saldatore».

«Lavoravate di meno che nel campo, spero».

Amanda solleva gli occhi. Il suo sguardo è privo di espressione.

«Dodici ore» risponde, «ma meglio del rullo spianatore tutto il giorno. E almeno avevi un tetto sulla testa. Anche se…»

«Anche se?»

«La fabbrica distava un chilometro e mezzo dal campo».

«E chi vi ci portava?»

Amanda abbozza un sorriso di una tristezza inaudita.

«Loro» dice, sollevando di mezzo centimetro dal suolo le sue scarpette ortopediche. «Dovevamo percorrere quattro volte al giorno quel tragitto sul ghiaccio con gli zoccoli di legno ai piedi».

Un colpo di tosse riempie per un istante il vuoto nella sala. Il presentatore si schiarisce la voce, ma Amanda prosegue. 

«Molte di noi nel tragitto verso la Siemens mangiavano le ghiande sparse nei boschi. La fame era un demone che ti picconava dentro. Un giorno trovai a terra uno dei tanti corvi che sorvolavano Ravensbrück. Era morto. Lo divorai».

Di colpo pare rasserenata.

«Erano davvero così tanti?»

«Erano dappertutto».

«Ricordiamo a chi ci segue da casa che Ravensbrück in tedesco significa “il ponte dei corvi”».

«Una settimana dopo quell’episodio mi ferii al piede. Stavo tornando al campo e la caviglia si incastrò sotto un sasso nascosto nella neve».

«Venne licenziata?»

Amanda sorride di nuovo.

«Pensa che avessi un contratto?» dice, «Fui condotta al Revier, l’ospedale del campo. È lì che vidi cosa facevano».

«E cosa facevano?»

Amanda sospira, nelle sue pupille scorrono immagini atroci la cui pellicola non potrà mai andare distrutta.

«Signora Amanda? Ci dica, la prego».

«Nel Revier vidi occhi strappati e uteri asportati senza anestesia. Prima di addormentarmi sento ancora le urla disperate di quelle donne. Solo più tardi seppi».

«Seppe cosa?»

«Cosa facevano».

«Può dircelo?»

Tira su col naso. Estrae un fazzoletto dalla gonna e se lo tampona.

«Il dottor Sonntag e il dottor Clauberg ci ritenevano indegne di procreare, così iniziarono con le punture. Venivamo messe in fila e fatte denudare, poi l’infermiera ci allargava le gambe. Per questo non ho mai potuto avere figli».

«Cosa vi iniettavano?»

«Sostanze irritanti a base di nitrato d’argento. Tre volte nell’utero, poi tornavamo alle  baracche dritte e sorridenti. Sembravamo matte. In poche sopravvivevano. Ma non ci fu solo la sterilizzazione. Un giorno arrivò un camion pieno di stampelle di legno».

«A cosa servivano?»

Il microfono fissato alla camicia della donna sbuffa.

«Alle più sane studiavano le gambe: le inducevano alla cancrena per poi cercare nuove cure. Veniva fatto soprattutto sulle polacche: le “conigliette”. Le chiamavano così per il loro modo di camminare dopo l’operazione. Kaninchen! Kaninchen! Ancora li sento».

«Una cosa atroce».

«Sapesse quanti virus e batteri hanno iniettato negli arti. Ci mettevano dentro schegge, bulloni, proiettili, e poi stringevano forte con le bende. A quel punto testavano i farmaci. Facevano cose disumane, ma anche senza senso».

«Cosa intende?»

«Ci facevano bere acqua di cottura di scarafaggi per le gambe gonfie. Iniettavano alle donne incinte l’urina di altre donne incinte. Tenevano esperimenti sulla rigenerazione di ossa, muscoli, e nervi. Nei corridoi aleggiava un fetore nauseabondo…»

In studio adesso c’è un vociare. Qualcuno si alza e abbandona la sala.

«Lo dicevo che non sarebbe stato facile».

«Sta andando benissimo, Signora Amanda. Pensavo a come la pazzia a volte renda invulnerabili. I tedeschi che descrive sembrano esseri senza paura».

«Non è del tutto vero. La loro più grande paura era proprio quella di essere etichettati come pazzi. Temevano che i loro misfatti trapelassero nel mondo, soprattutto quelli riguardanti i bambini».

«A proposito di bambini, Signora Amanda. Come presero la vita da campo?»

Lei lo guarda per qualche secondo, ed ecco che compare di nuovo quel sorriso amaro.

Il presentatore approfitta del silenzio per bere un sorso d’acqua dalla bottiglietta di fianco al suo sgabello.

«Erano un bel problema».

«Un problema? I bambini?»

«Cavolo se lo erano. Non erano forza lavoro, e i tedeschi non potevano permettere che il numero degli improduttivi aumentasse. Perciò le donne erano costrette ad abortire anche a pochi giorni dal parto. E se nascevano, li strangolavano o li affogavano davanti alle madri. Ne nacquero ottocento a Ravensbrück: quasi tutti morti».

«Posso chiederle, Signora Amanda, per quale motivo non parlò subito?» fa l’uomo con prudenza, quasi aspettandosi da lei un’occhiata stupita: dal suo sguardo, però, trapela soltanto mediocrità e delusione.

«Non mi avrebbero creduta. Sa come ci chiamavano, a noi reduci? I pidocchi. Mi ci sono voluti decenni per superare il lager. Mio marito mi ha aiutata, ma al ritorno in Italia abbiamo trovato solo indifferenza. Tutto quest’interesse per la verità è nato solo a trent’anni di distanza. Dopo quello che avevamo passato, la società ci respingeva e i nostri conoscenti ci bollavano come prostitute: gente con cui andavamo a ballare la sera, pensi… Loro ridevano ancora, mentre noi non parlavamo più. E poi a Ravensbrück eravamo invecchiate. La sofferenza invecchia più del tempo che passa».

Amanda si china sul lato destro, lascia ciondolare il braccio finché le dita deformi non trovano il tappo verde della bottiglietta. Sorseggia un po’ d’acqua e si tira su, rigida come lo sgabello che la sorregge.

«Oggi come si sente?»

«Lei come mi trova?»

«Beh, devo dire, Signora Amanda, che fisicamente la trovo in gran forma».

Amanda non risponde. Torna a giocare con la punta delle scarpe immersa nei suoi pensieri. Poi, dopo qualche secondo, si mette a contemplare il soffitto.

«Mi sento come quel corvo» dice infine, «quel corvo che ho mangiato. Con gli occhi aperti, eppure senza vita. Continuo a sanguinare pur avvolta da un ghiaccio che non intende sciogliersi».

«Una donna come lei può ancora provare paura?»

«Mi spaventa la progressiva scomparsa delle testimoni. Le origini dell’Europa sono i campi di concentramento, e conoscere le proprie origini è importante».

A questo punto, Amanda si rivolge al pubblico.

«C’è diffidenza a credere che quanto è accaduto possa ripetersi, sapete? È di questa diffidenza che ho paura. Ho paura che Ravensbrück venga ritenuta roba passata. Ma l’uomo non cambia. La sua vera natura riaffiora, si rimette in circolo, viaggia nel tempo».

«Quando ha capito che stava finendo la guerra?»

«Quando costruirono una camera a gas fuori dal campo. A Ravensbrück non c’era mai stata. Di fronte all’avanzata russa, i tedeschi reagirono con la liquidazione di massa. Lavoravamo di notte, invece che di giorno, mentre gli aerei sorvolavano le nostre teste. Nel febbraio del Quarantacinque vennero gassate almeno duemilacinquecento prigioniere. Il lago si riempì di cenere».

«Il lago?»

«Sì, il lago. Potrebbe sembrare strano, ma Ravensbrück era bellissima. L’aristocrazia terriera ci andava a trascorrere le vacanze estive. Quando arrivammo pensammo ci fosse andata bene: c’era un laghetto delizioso, e tutt’attorno delle ville stupende. Non c’eravamo mica accorte del lager».

Amanda ride, e stringe i pugni.

«È più tornata a Ravensbrück, Signora Amanda?».

«Nel 2005, per il sessantesimo dalla chiusura. E mi è bastato» dice. «Stephen Stewart al processo di Amburgo definì Ravensbrück “la più terribile prigione femminile della storia”, ma è ancora così poco conosciuto. Cadde nell’oblio dopo il processo, sa? Per gli alleati la priorità era sostenere la Germania dell’Ovest nella ricostruzione: bisognava porre fine allo scandalo, interrompere all’istante la ricerca di ulteriori prove. Bisognava solo dimenticare. Pensate che la Siemens, uno dei complici maggiori dello sterminio, fu fondamentale per la rinascita tedesca, tant’è che i suoi responsabili non furono mai accusati di crimini di guerra. Solo una volta crollato il muro è stato possibile visitare il campo».

Il presentatore sta per formulare una nuova domanda, ma Amanda scoppia a piangere. L’uomo la guarda rovistare con fare isterico tra le pieghe della gonna, fino a che il suo fazzoletto non cade a terra.

«Lasci, faccio io».

Amanda si ricompone in fretta, e col pezzo di stoffa ancora tra le mani, serra gli occhi e ridiventa forte.

«Vorrei rivolgermi alle donne e agli uomini che ci seguono».

«Faccia pure, Signora Amanda».

Giusto il tempo di ritrovare energia, ed ecco che Amanda esplode.

Fotografia scattata dall’autore

«Andate a Ravensbrück» dice con impeto. «Ora che è visitabile, andate a pregare davanti a quel lago. Le donne del Comitato sono lì per voi, non sono reperti in un museo. Una di loro c’è anche nata nel Revier. Quando le avrete davanti, guardate i segni sui loro corpi e pensate che potevano stare sulla vostra pelle».

A questo punto Amanda si alza, e con la punta delle dita inizia a tirare su la gonna. Un poco alla volta, impassibile.

«E con questa vi saluto» dice, col vestito che lento risale la pelle, «l’ha scritta Caterina, un’ebrea spezzina impiccatasi alla fine della guerra». 

Una goccia di sudore scende dalla fronte lucida del presentatore che la fissa impietrito, così come tutto il pubblico in sala. Mentre le cicatrici appaiono sugli schermi, la donna prende a intonare i versi. E più lei parla, più la gonna sale, senza indugio.

«Il corvo gracchia per me, che

sono ebrea,

ma ho due occhi e una bocca

per narrare i vostri orrori.

Il corvo ride di me, che

sono ebreo,

ma resto un uomo, comunque.

Il mio sangue è rosso: vedete

sono uno di voi».

Leonardo D’Isanto

Leonardo D’Isanto nasce a Roma il 23 agosto 1991.  Nel 2013 si laurea con una tesi sulla scrittura bebop di Jack Kerouac, presso l’Università La Sapienza di Roma per poi trasferirsi a Budapest, dove lavora nella Biblioteca Universitaria della Loránd Eötvös. Suoi racconti sono stati pubblicati su diverse riviste. Nel 2022 esordisce come scrittore con il romanzo Il Valzer del Pappagallo edito da Giulio Perrone Editore. Fa parte del collettivo «Spaghetti Writers». La sua residenza è a Roma, ma in realtà vive sui treni.

Mail: leonardodisanto91@gmail.com

Instagram: @leonardo_disanto

Una risposta

  1. Avatar Giampiero
    Giampiero

    Definitivo. Complimenti.

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