Tempo di lettura: circa 9 minuti
LA SPIAGGIA
Vincenzo Liguori
La spiaggia era affollata da persone che si muovevano sgraziatamente. Paraplegici, nani, uomini deformi con amputazioni di qualsiasi genere popolavano ogni zolla di sabbia. Un’enorme quantità di protesi giaceva accatastata sotto gli ombrelloni per evitare che il crudele sole estivo ne danneggiasse la sofisticata meccanica. Un salone degli orrori, una fiera delle mostruosità era quella stretta lingua di costa umida. Sembrava che l’oscena efferatezza del male si fosse concentrata tutta nello stesso luogo; che nello stesso istante lo spettacolo orrendo di una specie malata, ansimante, barcollante, emaciata e sudaticcia avesse deciso di raccogliersi proprio là, un giorno d’agosto. Ma probabilmente era sempre stato così. Cominciavo a convincermi che quella spiaggia costituiva il loro abituale ritrovo estivo e soltanto io, con le mie finte certezze, le vuote astrazioni dei miei pensieri o le banali, scontate normalità del mio corpo appesantito dal grasso e rammollito dagli anni, rappresentavo l’anomalia. L’estraneità della mia presenza, infatti, mi veniva costantemente confermata dagli sguardi che tutti, a ogni occasione, mi lanciavano dall’afoso riparo dei loro ombrelloni. Non mi scandalizzavano le loro deformità (la teratologia mi ha sempre affascinato), quello che mi incuriosiva era la varietà di queste e il numero.
Senza palesare troppo il mio morboso interesse nei loro confronti, mi misi a osservare la cura con la quale un uomo sulla quarantina, a cui era rimasto ben poco del suo braccio destro, spalmava di crema solare la schiena della donna con un solo seno seduta davanti a lui. Mentre con la mano sinistra schizzava dal flacone massicce dosi di cosmetico, con il rotondo moncherino del braccio mancante disegnava cerchi bianchi sulla pelle arrossata della sua donna. Figure circolari che sbiadivano man mano che quella rimanenza d’arto distribuiva la crema omogeneamente sul dorso e sui fianchi di lei. Il cheloide sul petto della donna formava una croce biancastra che assumeva il tragico significato della sconfitta. Era il segno evidente di una perdita, lo stigma del dolore formato con lembi di carne malamente ricucita sul ricordo di una mastectomia e di una mammella ormai finita tra i rifiuti organici ospedalieri. Quel rito d’unzione al quale ella si sottoponeva senza alcuna riservatezza, divertiva entrambi, e anche da lontano dove mi ero appostato per osservarli, si potevano sentire le loro allegre risate di gioia. Poco più il là, una madre accorta si preoccupava di sostituire il sacchetto delle feci di un bambino stomizzato la cui attività vitale era simile a quella di un lombrico. Rannicchiato su sé stesso, il fanciullo si muoveva lentamente in una lettiga anatomica dotata di un imprecisato numero di apparecchi elettronici per la stabilizzazione delle sue funzioni neurovegetative. L’asimmetria delle ossa della sua testa faceva pensare a una craniostenosi neonatale o a una scafocefalia. Per proteggerla dal sole, la madre gliela copriva con un berrettino di cotone che con movimenti spastici il bambino faceva cadere sulla sabbia rovente intorno al suo giaciglio d’infermità. Con un sorriso carico d’amore, quella donna obesa lo raccoglieva e glielo riponeva in testa attendendo di raccoglierlo nuovamente come in un gioco infantile vacuo e demenziale.
Per un attimo pensai che l’esposizione all’ulteriore offesa dei raggi solari di tutta quella carne martoriata e mortificata dalle più svariate malattie, fosse un’inutile ed eccessiva prova di coraggio, ma il mare immobile e cristallino evitò che io mi abbandonassi a peggiori considerazioni. Lo specchio d’acqua rifletteva il sole che lanciava appuntiti proiettili di luce. Quei dardi affilati e accecanti giungevano a me come scagliati da un potente arco e, poiché la temperatura dell’aria era salita rapidamente, l’afa cominciava a diventare insopportabile.
Con l’intenzione di prendere un bagno attraversai con destrezza la battigia facendomi largo tra un gruppo di amorfe figure intente a non lasciare neppure un centimetro della loro pelle senza uno sgargiante eritema solare. Spostandomi di scatto evitai la corsa da canguro di una donna con la gamba sinistra amputata quattro dita sopra il ginocchio. A ogni balzo i suoi enormi seni nudi danzavano in controtempo percuotendole il petto con violenza e producendo un suono secco simile a quello di uno schiaffo. La sua corsa finì in mare dove, con la gioia di una bambina, schizzò acqua in ogni direzione. Una raggiante e primitiva felicità sprigionò quel sorriso che si confondeva con gli spruzzi sollevati dalle sue mani chiassose. I seni abbondanti che prima le pendevano davanti, sembravano più leggeri ora che l’acqua li accoglieva con delicatezza e li spingeva in superficie. Neppure l’amputazione era ormai un problema nel dondolarsi leggero delle onde lente, e la sua felicità adesso, appariva finalmente raggiunta.
Un po’ in disparte, appena nascosti da uno scoglio, un uomo albino e una donna dalla pelle devastata da eczemi e vitiligine, si accoppiavano senza alcun imbarazzo per la presenza degli altri bagnanti. I loro corpi erano immersi nell’acqua dalla vita in giù ma il movimento ritmico dell’uomo alle spalle di lei, era inequivocabile e per certi versi anche ridicolo. Sbilanciato su un lato a causa di un’evidente ipercifosi dorsale, le stava aggrappato ai fianchi come un feroce felino artiglia la preda, ma spesso perdeva l’equilibrio e si dimenava goffamente per ritrovare una posizione più stabile. La donna, appoggiata con entrambe le mani allo scoglio, si lasciava penetrare da dietro mentre si guardava intorno con simulato disinteresse. Pareva fingesse di essere disturbata dall’insolenza degli sguardi dei curiosi, invece era chiarissimo ed evidente che apprezzava l’incrocio dei suoi occhi con quelli di chi apposta nuotava nelle loro vicinanze.
Quanto seme guasto in quell’amplesso, pensai. Cromosomi malati e alterati causeranno catastrofici disturbi genetici in embrioni fradici e purulenti. Quei due che adesso godono di piacere, genereranno altre mostruose creature che tra qualche anno esporranno qui, in questo enorme museo degli orrori, sussurrai a me stesso. Che razza di nuovo fenotipo salterà fuori dall’incrocio scomposto di quei due esseri copulanti? Putrefatta materia organica che si mescola ad altra putrefatta materia organica, ecco cosa vedo nel coito di quei pubblici amanti. E cominciai ad ammettere che anche lo spermatozoo che fecondò l’ovulo stanco e invecchiato di mia madre doveva appartenere a un essere indecente e ripugnante che per fortuna non ho mai conosciuto. Se le mie orecchie mi tormentano di acufeni e non sono capace di rimanere da solo in stanze vuote; se il mio ano perde sangue a ogni deiezione; se la notte sono preda di deliranti incubi e al mattino vertigini che non riesco a controllare mi immobilizzano a letto, allora anch’io appartengo a una specie malata che è la conseguenza di un’evoluzione fallita o mai avvenuta, pensai. Lo sfruttamento degli uteri a scopo procreativo che in millenni di storia dell’uomo si è perpetrato a danno della specie, oggi rende soltanto i frutti più marci e bacati. Con molta probabilità, ammisi ancora, lo sperma che con orgoglio virile andiamo schizzando in vagine sfiancate, infette e tumefatte da una spropositata quantità di parti, è soltanto una banale secrezione, una bava impotente a generare creature decenti e sane. Il sistema si è inceppato e la macchina è ormai fuori uso, monsieur La Mettrie, aggiunsi come provvisoria conclusione.
Avrei continuato ancora a elaborare pensieri ripugnanti se il gioco solitario di una bambina seduta sulla battigia non mi avesse distratto. Con le sue sottili manine, scavava piccole buche nella sabbia traendone meravigliose conchiglie e molluschi marini. Appena scovati, li sciacquava premurosamente nella debole risacca che le lambiva i piedi e li ammirava con curiosità quasi scientifica. Li annusava soddisfatta, se li rigirava tra le mani due, tre volte, li avvicinava agli occhi per ispezionarne attentamente ogni lato, infine li riponeva delicatamente in un secchiello colorato che teneva lì di fianco. Standole dietro, mi avvicinai cautamente per osservare meglio la sua attività. Lei, però, si accorse della mia presenza e, voltatasi di scatto verso di me, senza dire una parola, infilò la mano nel secchiello per prendere qualcosa che mi offrì con un gesto netto e inequivocabile. Tuttavia sul volto mostrò un’insolita e ingiustificata espressione di timore e preoccupazione, quasi avesse avuto paura che io volessi portarle via il prezioso bottino con la prepotenza o con il ricatto. Per non spaventarla, la ricompensai subito con un Grazie! affettuoso al quale rispose con qualcosa che assomigliava a un Prego! ma che la palatoschisi, da cui era palesemente affetta, rese incomprensibile.
Tra le mani, mentre la bambina con il suo secchiello si allontanava velocemente, mi ritrovai una meravigliosa ed enorme bivalvia del genere Pecten Irradians. I riflessi ambrati, striati di giallo, ocra e arancio, mettevano in risalto il suo armonioso disegno e la naturale perfezione geometrica della forma. Il regalo della bambina era stato scelto tra gli esemplari più incantevoli della sua raccolta.
La perfezione di questi piccoli invertebrati protetti dalla robustezza di solidi gusci di carbonato di calcio è quella di un microcosmo, un organizzato mondo in miniatura dotato di efficacia autoriproduttiva e fascino inconsueto. Ricordai, infatti, che per la loro attraente bellezza e la varietà dei loro colori, le valve di questa specie di molluschi un tempo erano sfruttate per ornare gli abiti dei pellegrini in marcia verso Santiago di Compostela e che, per tale motivo, sono ancora chiamate Conchiglie di San Giacomo.
Ero estasiato e attratto da quel meraviglioso pezzo di natura perfetta e simmetrica che mi era stato offerto. Mi sentivo fortunato a possederne un esemplare e finalmente cominciavo anche a capire perché la bambina, più di me, ne rimaneva colpita. Continuai ancora l’ispezione del guscio saldamente serrato ma volevo sentirne pulsare la vita, inalarne l’odore, apprezzarne la solidità e me lo portai davanti agli occhi, poi a un orecchio, al naso. La curiosità mi spinse a esaminarne anche l’interno dove sapevo che avrei trovato la freschezza di un frutto tenero e gustoso. Perciò mi procurai una piccola lama e, stando attento a non scheggiare le valve, le forzai delicatamente. Con un soffio simile a quello di uno sfiato, una puzza irresistibile si sprigionò da quel guscio che adesso sembrava la bocca spalancata di un viscido e schiumante mostro marino. Le due valve ospitavano la cloaca di un putrefatto organismo che si stava avviando verso una veloce e repellente decomposizione. Milioni di batteri e chi sa cos’altro stavano nutrendosi di quel mollusco che io avrei voluto assaggiare ma che adesso mi ripugnava e disgustava come la più immonda delle creature. Poiché l’aria che era penetrata nelle valve aveva probabilmente accelerato il processo di putrefazione del mollusco, il fetore che esso liberava e che ora raggiungeva le mie narici con maggiore violenza, si fece ancora più insopportabile. Con un gesto di stizza e repulsione, lanciai quell’orrore in mare dove i due copulanti, terminato l’amplesso, finalmente cercavano di ricomporsi e darsi un tono di distaccata sobrietà.

Mi occupo esclusivamente, e senza alcun criterio di priorità, di musica e di filosofia. E proprio di filosofia scrivo periodicamente per la rivista online Pangea diretta da Davide Brullo. Altri articoli dello stesso genere sono apparsi sulle riviste Konsequenz, Critica Impura, L’Intellettuale dissidente e per la casa editrice Polimnia Digital Editions. Miei racconti, invece, sono stati pubblicati nelle raccolte Apocalitticamente scorretto (Villaggio Maori Edizioni, 2015), Una cosa che comincia per L (Bookmark Literary Agency), e dalle riviste letterarie online inutile, Cadillac, CrapulaClub, Enne2. Veleno, romanzo ancora inedito, ha ricevuto la segnalazione del Comitato di lettura alla XXXIII edizione del Premio Italo Calvino (Torino, luglio 2020). A gennaio 2023 è risultato tra i tre romanzi finalisti alla X edizione del Premio Letterario Zeno e, l’anno successivo, è stato finalista alla XXIII edizione del Premio InediTO – Colline di Torino. Ma, a tutt’oggi, rimane ancora ignorato e privo di qualsiasi interesse editoriale.
Mail: 11liguori@gmail.com
Sito web: www.vincenzoliguori.net


Lascia un commento